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Oltre la tela: la recensione di Tino Di Cicco

L’arte è “solo” una chiamata. Quasi una richiesta d’aiuto di una entità ignota che vuole entrare nel mondo. E lo chiede, lo pretende, da alcune persone, perché altrimenti non saprebbe come fare.

L’opera precede l’artista. Lo tiene in pugno fin quando non vede la luce.

È lei che “strumentalizza” l’artista per arriva a destinazione. È inutile credere (è anche falso) che il soggetto sia l’agente. Il soggetto è agito anche quando il verbo sembra attivo. Un tempo tutti gli uomini sapevano che era così; sapevano che tutto quello che succedeva, tutto quello che entrava nel mondo, era deciso da potenze più grandi degli uomini. E chiamavano dei queste potenze.

Dopo duemila anni di condizionamento, il cosiddetto libero arbitrio ha invece convinto gli uomini non solo che gli dei non esistono; li ha convinti anche del fatto che non esistono più potenze superiori agli uomini. Adesso gli uomini sono sicuri di essere proprio loro i plenipotenziari della realtà. Non è rimasta quasi più traccia di un modo di pensare che affidi, a entità trascendenti l’uomo, la rappresentazione del mondo. Tranne che nell’arte. La casualità, l’irrilevanza dell’artista, la “chiamata” a testimoniare un diverso livello di esistenza, è evidente nelle conversazioni che Anthony Molino realizza con sette artisti italiani contemporanei (Alessi, Fratteggiani Bianchi, Infranco, Schifano, Scolamiero, Sedmach, Stefanucci), per realizzare il libro Oltre la tela: conversazioni sulla pittura. Negli incontri che Molino genera con questi artisti è, infatti, frequente questa consapevolezza. Ne cito alcuni esempi: “un elemento che trovo interessante, che direi cardine del mio lavoro, è il caso” (Ignazio Schifano, pag. 32); oppure: “e se il caso fa parte del sistema, com’è che ne fa parte?” (Alfonso Fratteggiani Bianchi, pag. 109); e ancora Manuela Sedmach: “quando guardo i miei lavori mi rendo conto…di quanto non mi appartengano…io li faccio ma sono loro che mi suggeriscono come andare avanti” (pag.92). Questa consapevolezza, che riduce ai minimi termini la tracotanza dell’io, non nasce da una scelta morale, ma da una esperienza vissuta. L’artista sa non perché lo ha letto sui libri; sa perché l’esplorazione cui è costretto dalla chiamata non gli lascia scampo. L’io che vuole, che decide, che governa le azioni degli uomini è un bluff. È una convenzione utile a darci un ruolo: un presunto “soggetto” alla disperata ricerca di una agognata “identità”.

Anthony Molino, psicoanalista nonché traduttore letterario, è nato predisposto al dialogo. E del dialogo ha fatto non solo la sua attività professionale, ma anche la cifra stilistica per realizzare i suoi libri. E qui, nelle sue conversazioni, riesce difatti a mantenere un singolare equilibrio tra il suo ruolo di intervistatore e quello dei suoi interlocutori. Non enfatizza niente; aiuta a capire. Nello specifico, aiuta a capire che “oltre la tela” comincia un’altra realtà. Quella realtà che sembra assente, ma è l’unica presenza in grado di generare un abbozzo di risposta all’incredibile esperienza dei viventi. Noi tutti cerchiamo una risposta allo sgomento e allo stupore; e la cerchiamo con più disperazione adesso che non la danno più né le religioni, né gli ideali che un tempo sembravano poterle sostituire. Più sentiamo, e sperimentiamo, la nostra solitudine nel mondo, più siamo costretti a diventare, in un certo senso, artisti. Dobbiamo inventare un mondo di colori, di forme, di suoni o di parole, per contenere la follia; per rendere possibile il nostro respiro. E libri come questo scavano, oltre la tela, per non farcelo dimenticare.

Tino Di Cicco

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