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SUL TESTO “LA SCUOLA DELLA TOTALITÀ” di Gian Luca Bellisario


A cura della Prof.ssa Antonia Cunti
Professore Ordinario Pedagogia generale e sociale – Università di Napoli Parthenope


L’esperienza pedagogica di Nicola Bellisario, ben documentata nel testo del figlio Gian Luca, costituisce un unicum a cui la scuola attuale al netto delle sue criticità potrebbe a tutt’oggi proficuamente ispirarsi e il lavoro di Gian Luca Bellisario gli rende un ulteriore merito nelle sue diverse sfaccettature. L’aspetto che colpisce, innanzitutto, è l’uso della parola “totalità”, ed è il caso, allora, di dedicarvi una breve riflessione iniziale. Il vocabolario Treccani ci dice che totalità è l’essere per intero, nella sua interezza.

Ma come procedere per comprendere al meglio questo intero, e quindi un approccio di totalità, e a chi e in che modo esso può essere riferito? Una prima modalità potrebbe essere quella di concepire alunno, scuola, insegnanti, ma anche genitori e territorio della scuola come un intero; se procedo in questo modo attribuisco valore a qualcosa che comprende le singole entità ma che al contempo le supera, e cioè alle relazioni. Cosa potrebbe significare che la scuola dà valore alle relazioni? Potrebbe voler dire che, se la prospettiva in cui ci si intende muovere in senso educativo è quella della crescita delle persone, una scuola delle relazioni è quella che mette le persone nella condizione di poter esprimere e di sperimentarsi in un ventaglio di relazioni, che non si esauriscono in quelle scontate: l’insegnante parla e l’alunno ascolta; il docente valuta ed alunni e genitori ne prendono atto, ecc.

Totalità, in questo senso, è anche totalità delle relazioni a cui in una dimensione educativa ci si può aprire. Potremmo dire che un approccio di totalità attivizza e connette dimensioni nascoste e separate. Un caso abbastanza emblematico è quello delle emozioni. Quando Goleman è stato conosciuto in Italia, anche la scuola ha cominciato ad aprirsi alle emozioni, o almeno così è sembrato. In realtà è successo che si è cominciato a prevedere uno spazio o magari un angolino in cui, forse anche per coprire alcuni sensi di colpa, le emozioni potessero personificarsi. È stata, quindi, ancora una volta, una risposta di separazione, che proteggeva dal rischio di andare a vedere le emozioni nel processo di apprendimento a scuola e nelle relazioni che mediano tale processo. La scuola della “totalità” usa spesso parole ed espressioni “emotive” per definirsi, parole che si fa ancora fatica a pronunciare, anche se forse oggi un po’ meno. Per esempio, felicità (“scuola vissuta in maniera felice”) e amore (“Terapia dell’Amore”) sono espressioni che sono state adoperate per definirla. La cosa interessante è che queste che sono emozioni si traducono in un fare amorevole che crea le condizioni e sollecita apprendimenti significativi. Il fatto, ad esempio, di immaginare una disposizione mobile dei banchi corrisponde innanzitutto al desiderio dei ragazzi di stare insieme, e ciò viene prima del fatto che (come è stato detto da una studiosa di fama mondiale come la Resnick) a scuola si è in tanti perché si apprende insieme, e quindi della specificità dello stare insieme per apprendere quale condizione funzionale alla qualità dell’apprendimento.

Viene allora spontaneo chiedersi: è possibile conciliare bisogni e desideri dei ragazzi con gli obiettivi della scuola? Diciamo innanzitutto che la domanda è mal posta perché la scuola nasce proprio a vantaggio delle future generazioni e dunque non può tradirne i desideri più autentici, e la risposta è in ogni caso affermativa.

Prima si evidenziava che Totalità rinvia al fatto che l’alunno è un tutto e che le sue diverse sfaccettature, che sono modi di guardare a un tutto, dovrebbero essere ampiamente sollecitate; così, la componente motoria, oltre che presente in quelli che oggi definiremmo i costanti cambiamenti di setting, è presente, ad esempio, nella Scuola della Totalità, e questo mi è piaciuto particolarmente, nel creare e ricreare ambienti educativi e didattici. Questo vuol dire, ma ce lo ricordava già Comenio, diversi secoli fa, che l’ambiente della didattica, o meglio gli ambienti, sono artificio, e dunque creati, non consegnati agli insegnanti affinché depositino in essi il loro sapere. Gli alunni appartengono all’ambiente e questo appartiene a loro, e quindi lo ricreano perché è mobile come essi lo sono.

Un’altra componente che rinvia all’impiego di un tempo di vita, destinato ad esempio alla preparazione di colazioni o al risposo, si è ritenuto potesse rappresentare una sorta di “Scuola destrutturata”; essa contribuisce a creare un senso di appartenenza e di condivisione, incentrata su di un fare relazionale emotivamente intenso. Un ulteriore elemento della totalità che mi ha particolarmente interessato riguarda i ruoli. Imparare a non essere sempre gli stessi mi è parso un insegnamento prezioso; oggi si parla molto dell’insegnante coordinatore, supervisore, tutor, ecc. L’idea di potersi immaginare diversi, di poter indossare abiti diversi apre al cospetto degli alunni al cambiamento, a non aver paura di esso, ed inoltre significa che la qualità delle relazioni si modifica e dunque ciascuno impara ad interagire in forme nuove. Questo mi sembra essenziale anche riflettendo su quello che dovrebbe essere il compito primario della scuola; a tale proposito, potremmo dire che la scuola dovrebbe aiutare i più giovani a trovare un loro proprio modo di essere, più che ad acquisire conoscenze o ad essere incoraggiato. Quale maniera migliore, allora, di quella di provarsi in situazioni differenti in cui si possano sperimentare diverse parti di se stessi e conoscersi meglio, per sapere un po’ di più chi si è e cosa si desidera dalla vita?

In questa direzione si collocano i gruppi omogenei ed eterogenei e lo scambio dei ruoli di insegnante e di alunno. In questa operazione “totale”, potremmo dire, di abbattimento degli steccati, si collocano altre iniziative, messe a sistema, e questo è importante. Al riguardo, vanno attenzionati, ad esempio, l’uso dell’aiuto e dell’errore o lo spazio di ascolto per alimentare la capacità di gestire le emozioni e per sostenere l’autostima, così anche la propensione a sdoganare l’errore e la carenza e a farli divenire strumenti da cui parte la riflessione; in generale, prevedere forme di intervento individuali e di gruppo per affiancare quando si è in difficoltà, cosicché quella capacità negativa di cui parlano Kitz e Bion, ossia la paura di apprendere, il disagio che possiamo provare quando siamo messi alla prova, di fronte all’ignoto, non porti alla capacità di allontanarsi quanto prima possibile dalla situazione difficile, bensì al sapersi fermare e saper stazionare nel dubbio, in ciò che è indeterminato, considerando questo come qualcosa che ci fa crescere. Il dubbio, del resto, come ci ricorda Dewey, è la partenza per qualsiasi forma di conoscenza autentica.

In ultimo, vorrei riprendere sinteticamente alcuni specifici aspetti didattici che non sono nuovi alla nostra scuola, ma di cui la Scuola della Totalità è stata antesignana, con motivazioni che poi si sono di parecchio perse per strada nella scuola attuale. Mi riferisco alle interrogazioni programmate, ai pre-esami, ai percorsi argomentativi, fino alle autovalutazioni. Per le prime, è da evidenziare la dimensione del tempo dell’apprendimento e della sua organizzazione. Dare il tempo significa prendersi il tempo ed imparare a gestirlo. Il taglio interdisciplinare dei percorsi che voleva essere non un immettere più o meno forzatamente tutte le materie in un iter di approfondimento, ma il collegare, è quello che direi è spesso carente in particolar modo nella formazione scolastica attuale. In primo piano è, quindi, il saper argomentare, che è un fatto personale ma che può avvenire se si usa il sapere per dare conto e ragione di qualcosa, dove lo sforzo soggettivo è proprio quello di una comprensione approfondita che sola può consentire di collegare e, dunque, di argomentare. Infine, la valutazione, dove lo scopo è quello di imparare a valutarsi, non di accostare due valutazioni, di guardare sia agli obiettivi sia ai processi. In conclusione, ringrazio l’autore per averci regalato l’opportunità di conoscere meglio una delle trame migliori della nostra scuola, in particolare recuperando elementi originari su cui dovremmo tornare a riflettere per realizzare processi di cambiamento in maniera più autentica.

Prof.ssa Antonia Cunti
Professore Ordinario Pedagogia generale e sociale – Università di Napoli Parthenope


La copertina del libro

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