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LA SCUOLA DELLA TOTALITA’ – LANCIANO 07-10

Presentazione del libro di Gian Luca Bellisario
“La scuola della totalità”


VENERDI’ 7 OTTOBRE 2022

ORE 17.00 – LANCIANO

Presso il Salone d’Onore della Casa di Conversazione “Benito Lanci” del Comune di Lanciano

Appuntamento venerdì 7 ottobre, alle ore 17.00, presso il Salone d’Onore della Casa di Conversazione “Benito Lanci” del Comune di Lanciano, dove Gian Luca Bellisario presenta il suo libro, freschissimo di stampa, “LA SCUOLA DELLA TOTALITÀ. NOTE SU UN ESPERIMENTO PEDAGOGICO-DIDATTICO NAZIONALE. Ideato e diretto da Nicola Bellisario” (Edizioni Mondo Nuovo). L’incontro è aperto dai saluti delle Autorità presenti e dell’editore, Dott. Enrico Faricelli. Dialogano con l’autore la prof.ssa Antonia Cunti, autrice della prefazione del libro, la prof.ssa Lucia Genovese, la prof.ssa Eide Spedicato Iengo. La presentazione si conclude con le testimonianze di alcuni ex alunni della Scuola della Totalità e con una relazione da parte dell’Autore.

Il libro è un approfondimento esaustivo sull’esperimento didattico ministeriale ideato dall’on. Nicola Bellisario e conosciuto come “Scuola della Totalità”, che ha incarnato tra il 1956 e il 1976 un’autentica proposta di rinnovamento della pedagogia e della didattica nella Scuola italiana, anticipando molti interventi legislativi adottati solo successivamente dal Governo. Un approccio didattico che torna ad essere più che mai attuale in un momento storico in cui la totalità – psicologica, relazionale ed istituzionale – dell’esperienza scolastica è stata messa a dura prova dalla pandemia.


GLI INTERVENTI DEI RELATORI

INTERVENTO INTRODUTTIVO DEL DOTT. FRANCESCO BELLISARIO

Carissimi convenuti,

quando si ricordano le azioni e le opere di una persona che ora non è più tra noi, è  spontaneo, e spesso è anche gratificante e arricchente per tanti di noi,  farne memoria, “commemorare”, correndo anche il rischio di  cadere nella retorica, ma non è sempre agevole comprendere se, e in che misura, quell’opera, quell’esperienza ideata ed incarnata dalla persona che ora non è più tra noi – seppur anticipatrice di cambiamenti che solo dopo tanti anni si sono attuati – possa oggi considerarsi innovativa e capace di indicarci ancoradopo più di 40 anni, delle soluzioni e delle innovazioni attuabili nella complessa e assai diversificata realtà del presente, soprattutto quando parliamo del mondo dell’Educazione. Mi sono quindi chiesto se “l’esperienza della Totalità”, dal punto di vista meramente pedagogico, possa oggi ancora dirci qualcosa di nuovo e possa essere, con gli opportuni correttivi, attualizzata, oppure se debba essere soltanto storicizzata ed archiviata come una sperimentazione sicuramente innovativa e pregevole per quel tempo, ma che oggi, in qualche modo, ha esaurito la sua potenzialità di incidere e di innovare il mondo della scuola e più in generale quello dell’educazione. Pertanto non essendo io un docente, né un esperto di pedagogia, sono ben lieto di conoscere, attraverso le autorevoli Relatrici, cosa può dire ancora alla scuola italiana l’esperienza della Totalità anche se, leggendo il libro scritto da mio fratello  Gian Luca, mi pare di cogliere che alcune innovazioni ed intuizioni della Totalità attendono ancora di essere attuate nella scuola italiana.

Tuttavia sicuramente mi pare di stretta attualità l’idealità (che non conosce tempo) che ha spinto Nicola Bellisario a spendersi in questa avventura,  per cui, a questo punto, mi pare opportuno chiudere questo mi breve saluto a nome dell’Associazione a lui intestata, richiamandomi  a ciò che mia sorella Gabriella ha scritto in occasione del 1° premio Bellisario a proposito di cosa era per nostro padre l’insegnamento e, quindi, l’impegno nel mondo dell’educazione: “…..papà concepiva l’insegnamento come una forma particolare di amore paterno e concepiva l’amore paterno come espressione dell’amore di Dio ……lui con la sua vita  ci indicava che se vuoi conoscere Dio partecipa alla forza del suo amore sia come amato e sia come amante nella relazione interpersonale tipica del processo educativo ….”  Ecco, mi pare che per papà lo stesso concetto di persona (e quindi anche di docente e di discente) non era inteso come un qualcuno che è  “per sé”  (questa è una vecchia concezione liberale della persona ) ma come un qualcuno che, nel suo intimo, è apertura agli altri e, cioè, persona intesa come “sono per… l’altro”. Quindi l’elemento costitutivo della persona è la “Relazione” con l’altro, scevra da derive confessionali e bigotte.

È stato detto che il Concilio Vaticano II non ha fatto i laici ma li ha descritti e mi pare che l’insegnamento e la pedagogia incarnati da mio padre costituiscano uno dei tanti tentativi di impersonare la figura di un laico dalla dimensione Conciliare. Infatti, etimologicamente, il termine laico deriva dal greco laïkós ovvero “del popolo”, quindi che “vive tra il popolo e per il popolo”. Mi sovviene una frase, a me cara, di Oscar Wilde: “Le cose vere della Vita non si studiano né si imparano ma si INCONTRANO “credo che questa possa considerarsi la ragione e la sintesi dell’impegno e dell’intera esistenza di mio padre.

Grazie a tutti ed a ciascuno,

Francesco Bellisario


Una nota a margine su “La scuola della totalità” – a cura della Prof.ssa Eide Spedicato Iengo

Questo volume di Gian Luca Bellisario sull’impegno professionale e politico di suo padre nella realtà scolastica e formativa si presta a più di una lettura. Sul versante di quella sociologica lo è particolarmente per due motivi: vuoi perché ripercorre le tappe più significative di una peculiare strategia pedagogica, vuoi perché supera lo spazio specialistico su cui è costruito e induce a riflettere sui “vuoti” etici, educativi e culturali della nostrasocietà, che Nicola Bellisario, attraverso il suo impegno professionale e politico, si era impegnato a colmare. Quanto dirò ruota attorno ad alcuni di questi “vuoti”.

Il primo di questi è il concetto di comunità che, negli attuali scenari sociali, attraversati dalla logica della discontinuità qualitativa e della revocabilità permanente, non sembra avere più voce. È silente per almeno tre ragioni. In primo luogo, perché la società, avendo perso la fisionomia di struttura e assunto quella di una rete (ossia un insieme di connessioni e disconnessioni casuali sostenute da un numero infinito di possibili combinazioni), moltiplica le appartenenze “corte” e dà spazio a individualità superficiali, frettolose, distratte che si muovono in un uniforme fluire di momenti privi di incoraggi. Poi, perché a livello collettivo, le pratiche della riflessione e dell’autoriflessione, della critica e dell’autocritica non sembrano godere di particolare cittadinanza in questo tempo della Storia che dà spazio alla chiacchiera e alla marginalizzazione del pensiero. Inoltre, perché nessun contrasto è stato opposto all’obiettivo della globalizzazione (dei mercati, delle menti e dei saperi) di uniformare la cifra delle singolarità nelle strettoie di un medesimo schema integralista. Il soggetto globalizzato, che lo si creda o no, è incapace di dare alle cose un senso stabile e permanente e altrettanto incapace diindividuare punti di riferimento orientanti e familiari. Pertanto, abitando in un punto del presente all’incrocio di mille accadimenti senza disporre di ancoraggi non è capace di cogliere, né di riconoscersi in contesti comuni.

Si pensi, al proposito, alla crescita dell’ingombrante categoria dei fondamentalisti della libertà individuale che vivono per se stessi; alle identità iper-semplificatrici che accolgono ogni informazione senza pensarla; a quelle iper-scettiche che divorziano sempre più dalla realtà e danno ogni fatto per scontato; alle individualità servizievoli e disponibili alle rotte dell’opinione vincente; alle soggettività che, adeguandosi a una sorta di agnosticismo di bassa lega e ritenendo che tutto sia precario, inquieto, volubile, cangiante, capriccioso (e dunque non correggibile e modificabile), ritengono sia impraticabile qualsivoglia espressione di impegno e autodeterminazione. Insomma, il tempo che stiamo vivendo, appare infecondo in particolare sul versante dei rapporti positivi, altruistici, costruttivi. Le forme relazionali che oggi vengono definite “comunità” sono effimere e transitorie e soprattutto impegnate a non tessere tra i propri membri reti di responsabilità etiche e di impegni a lungo termine. Sono forme associative passeggere che si dissolvono appena si conclude l’occasione aggregante. Si rifletta, ad esempio, alle “comunità guardaroba” di Zygmunt Bauman, o alle comunità network (costruite sulle attività del connettere e del disconnettere) o alla cultura da banco dei dilettanti che spaziano su Internet o a coloro che fanno parte della comunità-prigione dei social. In breve: l’oggi dà spazio ad attori sociali tanto liberi nelle proprie scelte quanto slegati da norme comuni e relazioni costruttive e responsabili.

 Il secondo concetto su cui ruota questo libro riguarda il concetto di socialità positiva che attiene al bisogno, per realizzarsi e sopravvivere, di riconoscere gli altri come propri simili. Nella promozione della socialità positiva un ruolo non secondario è svolto dalla “cultura”, ossia dal sistema di informazioni normative relative agli innumerevoli modi di agire, pensare e sentire presenti in una determinata società. Per esempio, le emozioni e i sentimenti che si provano nei confronti degli altri non derivano solo dal patrimonio filogenetico di cui l’uomo dispone, ma anche dalla socializzazione di valori, modelli, principi, norme che questi riceve e acquisisce dall’ambiente in cui vive. Voglio dire che l’empatia, la fiducia, la cooperazione, la generosità, la disponibilità, l’altruismo non si insegnano da una cattedra o attraverso interazioni virtuali ma incoraggiandoli, favorendoli, praticandoli nella quotidianità, nella concretezza dei rapporti faccia a faccia, in cui: si costruiscono le relazioni umane e sociali; si impara a stare insieme e a interiorizzare ciò che è giusto o ingiusto, civile o incivile, corretto o scorretto; si promuovono le sensibilità inclusive e le coscienze dialogiche, ossia le prassi che contribuiscono a presidiare i confini della vita civile e del patto sociale.

La circostanza che nella nostra contemporaneità gli articoli della socialità positiva soffrano, al momento, di scarso riguardo è, a mio parere, da attribuirsi all’attuale  periodo storico-sociale che ha opacizzato (accantonato?) i suggerimenti solidali del nostro patrimonio filogenetico e vistosamente incoraggiato, per dirla con Zygmunt Bauman, quel modello culturale egoistico e autocentrato (la filosofia del cacciatore) che insegna a perseguire obiettivi esclusivamente personali e ad aver cura  solo del proprio  benessere. Di qui la necessità di educare all’esercizio del pensiero attivo e meditante e delle sue sorelle (la sensibilità, la coerenza, la responsabilità, l’autodisciplina) contro quello a nolo, d’accatto, passivo, impersonale che promuove anomia sociale e sonnambulismo collettivo.

Il terzo elemento di cui questo testo è innervato rinvia al bene comune, ossia alla inderogabilità di regole sociali che orientino nella direzione di prassi solidali, accomunanti, protettive della “cosa pubblica”, ossia della politica nella sua versione più nobile. La nozione di bene comune richiede, dunque, appartenenze stabili e chiare; coscienze educate e vigili; confronto autorevole e competente fra posizioni, anche lontane fra loro, per proteggere le regolazioni sociali e dar luogo a costruzioni condivise. Domanda, inoltre, capacità di esercitare quella forma di libertà (la libertà per) di dedicare le proprie energie ad un obiettivo ideale in grado di mobilitarlo. Ossia, domanda l’esatto contrario di quanto propone il carrozzone socioculturale dell’oggi che sa offrire solo arrangiamenti di bassa lega in risposta alle esigenze sociali e sembra, in particolare, non conoscere il significato di responsabilità morale, che fa leva sull’impegno etico degli individui; offre la sponda per sintesi collettive di stampo mutualistico; dà spazio all’impianto delle cosiddette società orizzontali che poggiano sul principio dell’eguaglianza e sul rispetto della dignità di ciascuno.

         La nozione di bene comune è, inoltre, strettamente connessa a quella di cittadinanza che poggia sulla concezione elevata e di rango dei cittadini, dal momento che chiede loro di saper governare se stessi, sottraendosi a due opposte derive; quella del totalitarismo che ne fa dei sudditi, e quella del mercato che ne fa dei clienti. A queste due forme di etero-direzione essa contrappone la via di una comunità costruita a partire dalla libertà, un equilibrio delicato tra diritti e doveri, attenzione e passione, emozioni e progetti, ambizioni private e pubbliche virtù. 

       Per concludere, a queste pagine si adatta assai bene una riflessione di George Steiner. Questo il passo in questione. Scriveva: «Noi siamo gli invitati della vita: imparare ad essere gli invitati della vita significa lasciare la casa in cui si è invitati un po’ più ricca, un po’ più umana, un po’ più giusta, un po’ più bella di come la si è trovata». È questo il messaggio che, a mio avviso, ci lascia anche questo denso volume che ripercorre il cammino esistenziale e professionale di un Uomo dai profondi valori morali, politici, educativi.

Eide Spedicato Iengo


Presentazione sintetica – a cura della Prof.ssa Lucia Genovese

Nel volume La scuola della totalità il dottor Gian Luca Bellisario ricostruisce e documenta, con grande cura e pluralità di contributi, un interessante esperimento pedagogico-didattico condotto presso l’Istituto Magistrale C. De Titta di Lanciano dal 1956 al 1976, progetto dal 1958 riconosciuto di rilevanza nazionale dal Ministero della Pubblica Istruzione e monitorato dal Centro Didattico Nazionale per i Licei. Ideatore e regista di questo esperimento, dall’inizio fino al 1972, fu il prof.  Nicola Bellisario, docente di pedagogia e psicologia presso il De Titta, che aveva intrapreso questa avventura avendo alle spalle altre esperienze di innovazione didattica. In seguito alla sua elezione a deputato (1972), Nicola Bellisario continuò a occuparsi di scuola e di formazione sia ricoprendo prestigiosi incarichi sia grazie a un’intensa attività parlamentare nella quale portò la passione, le esperienze e le competenze vissute e maturate fin da giovanissimo nell’associazionismo cattolico (Azione Cattolica e Acli), nella sua attività di docente in istituti scolatici di diverso grado e nell’Università, nella Democrazia Cristiana e negli Enti Locali: a tale riguardo il volume testimonia le tappe della vita di un cattolico impegnato e di un docente convinto che il rinnovamento di una società vedeva uno dei suoi snodi essenziali nel rinnovamento del modo di fare scuola e di intendere la funzione dell’istituzione scolastica e dei suoi docenti.    

Sono istanze sempre valide per cui il pregio del volume è aver riacceso i riflettori su di un esperimento sicuramente molto innovativo, non solo per i tempi nei quali fu condotto, come il lettore ha modo di apprezzare dalla riproposizione di pagine, edite e inedite, di Nicola Bellisario, da contributi e riflessioni di Gian Luca Bellisario oltre che dal ricordo partecipe di allievi che hanno vissuto quell’esperienza e offrono al lettore altri suggestivi elementi di informazione e di riflessione.

Tale scuola, come suggerisce il termine totalità, si prefiggeva di essere il luogo che accoglieva e guidava gli allievi in un percorso formativo a tutto tondo fondato sul rispetto delle caratteristiche e delle esigenze di ciascuno di loro e mirando a una piena formazione e allo sviluppo delle loro potenzialità avendo come punto di riferimento ideale la pedagogia personalistica di Maritain. Su tali basi prendono vita e vigore le tante anime di questo progetto pedagogico educativo di ampio respiro che l’interessante quadro di sintesi alle pagine 105-110 del volume permette di apprezzare nel suo insieme, nelle ricadute avute nella nostra scuola oltre che per innovazioni che ancora attendono di essere attuate su più larga scala. Le innovazioni caratterizzanti la scuola della totalità, nel loro investire allievi e docenti in funzione della loro formazione e non solo della loro istruzione, si distinsero per progettazione e gestione collegiale delle attività educative e didattiche nella scuola, che si avvalevano di schede bio-psicologiche grazie alle quali impostare e rileggere i percorsi curricolari e di un impegno collegiale. Tali percorsi organizzavano in modo congruente alle finalità di formazione e di autoeducazione della persona i tempi e gli spazi nella scuola, prevedevano materie culturali e materie elettive, contemplavano attività individualizzate e di gruppo, attribuivano alla valutazione una funzione formativa volta a sostenere e orientare oltre che accertare l’apprendimento degli allievi con abolizione di voti e di interrogazioni tradizionali e ricorso a attività miranti a verificare e accertare gli apprendimenti in modi meno fiscali e con forte attenzione agli aspetti di metodo. La scuola della totalità fu un esperimento interessante anche per altre ragioni che, in estrema sintesi, possiamo ricondurre alla consapevolezza che il rinnovamento della scuola deve interessare anche quanto esiste e gravita oltre il suo perimetro e che questo riguarda sia la progettazione di attività rivolte agli allievi che si svolgono in altri tempi e in altri spazi, sia un diverso rapporto con i genitori e con la più ampia comunità nella quale e per la quale l’istituzione opera perché risultati migliori chiedono condivisione e sinergie tra scuola e extra scuola. Su tali questioni, la scuola della totalità offre ancora oggi motivi di riflessione così come l’aver privilegiato come sede dell’esperimento quello che era allora l’istituto di formazione degli insegnanti della scuola primaria ci ricorda dell’importanza di investire nella preparazione degli insegnanti perché per insegnare in maniera innovativa è fondamentale essere stati formati in modo congruente. A tale riguardo, si deve ricordare che Nicola Bellisario si impegnò nell’attivazione di un Biennio Universitario di Tirocinio Didattico e perfezionamento magistrale per i neo-maestri, esperienza che anticipa riforme che saranno realizzate quasi trenta anni più tardi e segnala la consapevolezza che l’istituto magistrale non poteva essere il percorso idoneo a garantire al futuro insegnante elementare una formazione adeguata alla complessità dei suoi compiti.

Lucia Genovese


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