Più che liquida, la nostra società sembra sempre più gassosa. Cambia stato, opinioni, “valori” ad ogni settimana, e la “verità” la consegna sempre alla maggioranza di turno. Più che uomini, sembriamo banderuole.
Basta un refolo di vento, una falsa notizia sulla rete o nei giornali, e tutti velocemente ci ri-adattiamo alla nuova “narrazione”.
Più che mettere le notizie al servizio della nostra “fede”, sembriamo mettere la nostra “fede” al servizio delle news ( “qual è la fede di un uomo, quello egli è” ; Bagavadgita ).
Perché è diventato possibile questo ?
Forse perché, come ben sapeva Platone, “la verità abita fuori del mondo”, e se noi non sappiamo più vivere il “trascendente”, non possiamo più vivere la “verità”.
Senza “trascendente” noi possiamo trovare “realtà”, “verità”, “identità”, solo nel sociale.
E il sociale è il carcere peggiore che ci potesse capitare. Lo sapeva benissimo lo stesso Platone quando chiamava il sociale “Grosso Animale”. Un Animale che con i suoi bisogni chiamati “valori” condiziona profondamente la nostra considerazione di noi stessi : “noi assumiamo come beni certe convinzioni sociali indipendentemente dalla loro destinazione….. e noi stessi non ci stimiamo se non socialmente” (S. Weil).
Nel “valutare” la nostra esistenza, abbiamo sostituito il trascendente con il sociale e, forse per la prima volta nella storia dell’uomo, tutto il “senso”, tutti i significati di cui abbiamo bisogno per vivere, vengono generati dai ”valori” della società. “Nel corso del novecento si è cristallizzato un processo di enorme portata, che ha investito tutto ciò che passa sotto il nome di “religioso”. La società secolare , senza bisogno di proclami, è diventata ultimo quadro di riferimento per ogni significato, quasi che la sua forma corrispondesse alla fisiologia di qualsiasi comunità e il significato si dovesse cercare solo all’interno della società stessa…. E’ come se l’immaginazione si fosse amputata, dopo millenni, della sua capacità di guardare oltre la società alla ricerca di qualcosa che dia significato a ciò che accade all’interno della società ( R. Calasso).
Orfani del “trascendente” non abbiamo più punti di riferimento (“Si dà autentica Politeia se comanda un Principio che trascende il politico, e che dal politico non può prodursi”, M. Cacciari), e siamo perciò costretti a cercarli dentro la società. Ma nella società l’idea del “bene” cambia continuamente : dipende infatti quasi solo dalle news , dai leader e dalle maggioranze che di volta in volta si consolidano.
Così siamo costretti a vivere dentro una società gassosa, dove tutto deve continuamente cambiare, perché ci manca un riferimento “trascendente”: “non c’è nulla di più informe della sostanza delle menti, se la si separa da Dio” ( Malebranche citato da Calasso).
E Dio non significa solo il Dio delle religioni, ma anche l’ideale, il “trascendente” , l’”assoluto”; e la “morte di – questo – Dio” ( F. Nietzsche) priva l’uomo dello spazio “aperto”, del “sacro”, dell’indisponibile, dove ancorare per sempre la nostra esistenza.
Quello “spazio” che imponeva ad Antigone di morire, per dare testimonianza che non tutto era riducibile a polis. Che obbligò Gesù a ricordare con amore agli uomini che al di là del Cesare di turno, c’è il cielo. E che ancora “oggi” ha fatto dire a Simone Weil :”realtà ed esistenza sono due cose distinte”.
Sta qui la nostra tragedia : stiamo velocemente restringendo l’orizzonte dentro il quale vivere, e chiamiamo “libertà” questa discesa verso la “caverna“.
E’ questo che sta impoverendo come mai la vita dell’uomo : ancora mio padre, e sicuramente mio nonno, e i nonni di tutti i nostri nonni, sono vissuti dentro un mondo più “ampio”, più “aperto” del nostro.
Perché quel mondo poteva contare su “due città” : quella “terrestre” e quella “celeste”, mentre noi possiamo contare solo sui significati, sui “valori”, sul bene, resi disponibili dai nostri mercati.
E quanto più il mondo diventa piccino, limitato, “umano”, tanto più cresce la nostra sofferenza : “quanto più il mondo è inconsistente, tanto più cresce il numero di coloro che hanno da lamentarsene” ( R. Calasso).
Ridurre il “mondo” alla nostra misura è solo un modo per impoverire la nostra vita. E questa povertà genera rancore sulle nostre strade e dentro le nostre televisioni.
Per questo non sappiamo più fare quell’esperienza che fece dire ad Holderlin : “fui vocato a lodare chi è più alto,/a ciò mi diede il Dio la voce e un cuore grato”.
Anche noi vorremmo vivere la gratitudine; anche noi vorremmo fare esperienza del grande, dell’”altro”; ma dell’altro non abbiamo più neanche il nome. Per questo siamo più poveri, anche quando il PIL ci dice il contrario.
Aumenta l’infelicità, perché a noi non può bastare “una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, salva restando la salute” (F Nietzsche).
Noi siamo “animali divini”, e se perdiamo il “nostro “ divino, resta solo l’animale. E non ce lo meritiamo. Non lo merita nessuno di noi.
Tino Di Cicco