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Il Diario di Kaspar Hauser (Paolo Febbraro): la recensione di Tino Di Cicco

Il Diario di Kaspar Hauser di Paolo Febbraro (Edizioni Mondo Nuovo) non è un libro, ma la testimonianza di quanto un’esperienza di mondo possa essere estranea al nostro mondo.
Kaspar non si oppone ai nostri valori, come i rivoluzionari o i santi, vive dentro un altro orizzonte.
Paolo Febbraro con questo libro è riuscito a creare una realtà totalmente estranea alla nostra realtà; ma senza mai teorizzarla; senza mai metterla in conflitto con la logica con la quale gli uomini organizzano il loro mondo.
È vero che lì dentro la logica è totalmente illogica (per noi), e comprensibile è solamente il sogno: «Era un sogno, Kaspar,/non la realtà».//«Infatti l’ho capito, Franz», ma senza mai forzare la mano. Senza rivendicare una “verità” fuori di quella che ci sembra vera.
Kaspar Hauser non si oppone a quello che noi sappiamo, lo ignora.
Forse sa che per poter dire la “verità” occorre essere folli, oppure idioti: “in questo mondo… solo gli esseri privi di considerazione sociale, guardati da tutti come sprovvisti dell’elementare forma di dignità, la ragione, soltanto loro hanno effettivamente la possibilità di dire la verità. Tutti gli altri mentono.” (Simone Weil). Sa che è inutile combattere gli uomini con le armi degli uomini.

Qualcuno ha parlato di ingenuità, ma per chi guarda ad occhi aperti, forse è molto di più: è meraviglia e sgomento; è tragedia profonda. Che gli uomini non riescono a vedere, perché tendono a chiudere nel patologico ogni prospettiva divergente; solo così possono salvare il loro mondo.
Kaspar Hauser invece riesce a muoversi in un territorio di pura estraneità. È come se si fosse perso nel mondo; o meglio: è come qualcuno che non è riuscito a entrarvi. È un Franz Kafka che parla in versi: ma più che il Gregor Samsa della Metamorfosi, sembra l’agrimensore K. del Castello.
Perché il primo è stato un uomo, anche se dopo assume caratteristiche aliene. Il secondo non è mai entrato nella logica degli umani: quella che ci fa vivere e parlare, proprio come noi adesso facciamo.
Per Kaspar/Febbraro l’altrove non è lontano, è proprio qui, dove noi adesso siamo: “scaraventato altrove/e l’altrove era qui//più vicino della tua mano/proprio dentro il tuo cuore//eri proprio tu l’altrove/anche se tutti/qui/ti chiamavano per nome”. (Tino Di Cicco)
In questo mondo tutto può accadere, non solo quello che noi pensiamo debba succedere: “apri la finestra, Kaspar”/ “No, Franz. voglio rimanere”. Oppure : “Vieni a passeggiare, Franz?”/“Più tardi, Kaspar, sto leggendo”.//Chiedere se leggere/è prima di passeggiare.
Qui non c’è niente che ci somiglia. Tutto è prima del nostro mondo; oppure dopo, non è facile da capire.
E poi la brevità delle poesie non è casuale; perché la brevità è il segno fondamentale dello stupore poetico. Per Holderlin “ la brevità condensata, lo stile breve e raccolto” è la forma suprema dell’arte.
Quando si passa dallo stupore al discorsivo, forse è ancora poesia, ma è più facile pensare che possa essere qualcosa che parla come gli uomini; qualcosa che ha dimenticato la meraviglia e lo sgomento per essere entrati qui dentro.
Perché la poesia più è breve, più elimina il tempo dalla sua esperienza: la descrizione è il peccato mortale della poesia.
Perché a differenza di tutti i generi letterari, la poesia non vuole assecondare il tempo; vuole ignorarlo.
Più o meno consapevolmente vuole creare un mondo dove la prepotenza del tempo venga neutralizzata, accantonata: “l’attività poetica dovrebbe condurre alla scoperta di un ritmo diverso dal tempo” (Simone Weil).
Ignora la grammatica, perché la grammatica obbliga le parole ad organizzarsi come vogliono gli uomini. Ma la poesia cerca l’origine; dove le cose non sono ancora le cose nominate dalle nostre parole. Dove l’incomprensibile è l’unica conoscenza che alimenta la nostra esistenza: ”Siamo noi a vederle piccole, Kaspar./In realtà sono enormi,/la loro luce è fioca/solo per la distanza//”Quanto sei alto, Franz?”/“Un metro e settanta”./Poi corro forte e lo stringo/vicinissimo./”Ora quanto?”
Anche la punteggiatura è fitta fitta per non dare spazio al discorso. Per non lasciarlo andare.

Le poesie di Kaspar Hauser appartengono al genere di chi è rimasto “fuori”, e, secondo me, sono pochissimi che hanno scritto in questa condizione.
La maggior parte delle persone scrive dall’ “interno”, come chi è stato già catturato dalle parole, dalla logica, dai valori degli uomini. Kaspar Hauser no. Lui è veramente un altrove dentro noi. Un testimone dell’indicibile e dell’incredibile.
Non sono molti a poter dire: “Non nascere è un modo di morire?” perché bisogna stare “fuori” , ma molto “fuori” dai nostri nomi, dai nostri pensieri, dai nostri valori, per poterlo sapere.
Forse bisogna essere un papavero, oppure l’arcobaleno; una rondine oppure la luna. Gli uomini no. Gli uomini non sono capaci di aprire così tanto gli occhi e soprattutto il cuore. Gli uomini siamo tutti “prigionieri”.
Ma se la poesia non è un oceano di buio che ci libera dalle illusioni generate dalla luce della nostra piccola candela, che poesia è?

Tino Di Cicco

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