IL CALCIO, OPPIO DEI POPOLI, ORO DEI POTENTI

IL CALCIO, OPPIO DEI POPOLI, ORO DEI POTENTI

di Gabriele Gambini per La Verità, via Dagospia

Il legame tra politica e pallone è antico e pieno di esempi: Mussolini fece leva sulla nazionale di Pozzo per dar lustro al fascismo, la “discesa in campo” di Berlusconi, ma anche il ruolo della FIFA nel riconoscere nazionali come Taiwan e Hong Kong e il rapporto di Maradona con Fidel e Maduro – un nuovo libro scritto da Valerio Mancini, Alessio Postiglione e Narcìs Pallares-Domenech racconta il legame tra club e nazionali e la geopolitica…

Nell’era del dominio della tecnica e della post democrazia, dove i potentati economici dettano le loro condizioni alla politica e gli equilibri nazionali e sovranazionali cambiano morfologia, un luogo mantiene da molti decenni le sue prerogative polivalenti: lo stadio di calcio. È collante per le masse e scacchiera su cui imbastire strategie per le elite, viene guidato nelle sue regole da razionalismo illuminista, ma non potrebbe esistere senza la spinta identitaria delle comunità che partecipano alle partite-evento con la stessa, irrazionale intensità con cui i popoli antichi partecipavano ai riti religiosi. 

Il calcio diventa luogo dell’indifferenziato, i suoi feticci simbolici sanno trasformarsi all’occorrenza in una forma di religiosità laica, ma anche in strumento di affermazione politica usato dagli stati, dalle associazioni, fino a pochi anni fa dai partiti. L’intreccio tra sport e politica è antico – in un clima arroventato, Mussolini fece leva sulla Nazionale di Vittorio Pozzo nel 1938 per dar lustro al fascismo, l’Uruguay negli anni Trenta ha acquisito legittimazione crescente grazie ai successi della sua nazionale, in tempi più recenti, la Russia ha investito denaro a palate in numerosi club di pallone per suggellare le sue proiezioni geopolitiche – e affonda le sue radici nella fitta corrispondenza di intenti presente tra i due ambiti. 

Con sovrabbondanza di aneddotica e un armamentario di informazioni circostanziate, Calcio e geopolitica (Mondo Nuovo Edizioni), scritto da Valerio Mancini, Alessio Postiglione e Narcìs Pallares-Domenech racconta l’epopea dei club più famosi e delle nazionali, ricollegandola al ruolo essenziale ricoperto negli assetti tra potenze mondiali. Dalla nascita del tifo alle peculiarità degli ultras – autentiche proiezioni degli schieramenti di battaglia dei secoli scorsi, con annesse ritualità, gerarchie, leggende e consuetudini – passando per la creazione delle società sportive, patrimonio dapprima tangibile per i loro sostenitori, poi elevato a sulfureo business globale. Non scordando i simboli che concorrono alla creazione dello, come viene chiamato oggi, storytelling di supporto: la storia di Diego Armando Maradona è quella di un catalizzatore di pulsioni tale da scomodare, alla sua morte, gli interventi dei capi di stato di tutto il globo. 

Ciò che sorprende è il sottile filo di congiunzione tra la rappresentazione della società civile nei suoi meandri, le vittorie di un club sportivo e le ripercussioni conseguenti.

Silvio Berlusconi, con i successi del Milan, ha potuto consolidare strategicamente le sue ambizioni politiche. Analoga sorte, pur con parabole diverse, per Bernard Tapie, patron dell’Olympique Marsiglia. La Fifa, federazione internazionale del calcio, esercita un ruolo così fondamentale nella legittimazione degli equilibri mondiali, da riconoscere le casacche delle nazionali di Taiwan, Hong Kong, Macao, paesi sotto l’influenza cinese e che con la Cina non godono sempre di relazioni amichevoli. Nella Conifa – la confederazione delle associazioni di football indipendenti – trovano asilo le selezioni occitane, della Transnistria e persino quella della Padania che cercò proprio con la costituzione di una squadra di calcio riconoscimento internazionale. La lezione da imparare è: dietro ai copiosi investimenti nel gioco più diffuso del mondo, c’è parte del destino e del futuro politico delle nazioni.

(Articolo di Gabriele Gambini, via Dagospia)

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