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Huffington Post: articolo su Calcio & Geopolitica


Globalizzazione e localismo si combattono anche nel calcio

Un articolo di Angelo Bruscino su www.huffingtonpost.it parla di CALCIO & GEOPOLITICA

Dall’articolo su www.huffingtonpost.it:

La partita questa volta la portano a casa i tifosi, battendo le logiche del mercato 1 – 0. Il momentaneo naufragio della superlega è la dimostrazione che il processo di “mercatizzazione” del calcio non è indolore.

Ne parlano Alessio Postiglione, Valerio Mancini e Narcìs Pallarès in “Calcio e geopolitica”, in libreria dal 13 maggio, per Edizioni mondo nuovo, dove spiegano il ruolo di soft power dello sport più bello del mondo. Gli autori mettono in risalto quel conflitto fra tifosi che percepiscono il calcio come fenomeno identitario e le logiche del liberismo, sulla scia del grande sociologo Karl Polany, che aveva individuato nell’antagonismo fra comunità e mercati uno dei driver della modernità. Analogamente, da anni, i tifosi stanno abbandonando le gradinate insorgendo contro il calcio moderno, in nome di uno sport dove gli elementi rituali e collettivi, il culto per le bandiere, sono stati rimpiazzati da un processo di “commodificazione”.

Il passaggio fondamentale sono i diritti televisivi, allorquando il calcio ha smesso di essere uno sport per proletari che si azzuffano nei pub, un rito popolare e collettivo, per diventare consumo borghese individuale davanti alla tv o in stadi, ridotti a centri commerciali. La logica territoriale e identitaria, l’appartenenza alla città e l’amore per la bandiera vengono rimpiazzati dalle logiche di consumo impersonali proprie dei brand. Nella società dello spettacolo, il calcio rituale viene normalizzato nella cornice dello show business.

La fede calcistica muore in un’epoca caratterizzata dalla razionalità economica. Il campanilismo non si confà a un mondo globale e liquido. 

Oggi, la ribellione dei tifosi segnala la loro vittoria, ma il calcio si trova comunque in un cul de sac.

Real Madrid e Inter hanno più tifosi in Cina di quanti non ne abbiano a Milano o a Madrid. Sono brand internazionali. Estrarre valore a livello globale diventa prioritario, e il vecchio tifoso magari politicizzato – la conoscete la genesi delle brigate milaniste rossonere? -, è un disturbo per la fruizione calcistica degli emiri del Golfo, nuovi spettatori e proprietari dei club europei, che associano le squadre italiane alla bella vita fatta di Gucci e Ferrari, non alle periferie dove incubava la passione calcistica negli anni ’70. 

Le squadre europee vivono questo paradosso. Per essere competitive hanno bisogno dei soldi degli americani, dei russi, dei cinesi. Ma le nuove proprietà sono più interessate a rivendere all’estero questi brand, che non nelle città che hanno dato i natali al sodalizio sportivo. L’economia globale distrugge gli Stati nazionali e travolge anche le logiche identitarie del calcio di campanile. I grandi investitori stranieri che sono entrati nel calcio, d’altronde, sono sempre più interessati all’utilizzo di questo sport come soft power, come notano Postiglione, Mancini e Pallares.

La ribellione contro la superlega, infine, denota un altro paradosso. UEFA e FIFA insorgono contro i nuovi padroni del vapore che vanno in direzione di una ulteriore concentrazione capitalistica: ma sono stati proprio gli organismi che governano il calcio a livello globale, fino a oggi, a favorire questi processi, tipici del liberismo. E, nonostante le belle chiacchiere sul merito e la competizione, ecco che si palesa la vera ragione di questa superlega. Garantire i club più ricchi rispetto ai rischi degli investimenti e fare fuori tutte le squadre che non fanno parte di questa élite globale. Perché il liberismo non vuole premiare sportivamente i migliori, ma semplicemente i più ricchi.

Fonte: www.huffingtonpost.it

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