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Articolo di Libero per il libro di Veronesi su Dante

“PENSIERI FOLLI – Rime troppo stravaganti per averle scritte Dante”

“Messaggi esoterici, atmosfere torbide e cupe: in un volume le liriche del Poeta non ritenute in linea con la sua scrittura” – Libero

Di SILVIA STUCCHI

Con Folli pensieri e vanità di core (Edizioni Mondo Nuovo, 2021, 134 pp., 15 euro) Matteo Veronesi, già autore di saggi sulla critica letteraria ermetica e su Pirandello, e traduttore di Persio, ci guida alla scoperta del “Dante sconosciuto”, ovvero di trentuno liriche attribuite a Dante almeno in un manoscritto o in un testo a stampa antico, ma poi rimaste a margine del canone ufficiale, in quanto bollate come “estravaganti”, ovvero di dubbia attribuzione. Queste rime dubbie e sparse costituirono dunque, secondo la definizione di E. G. Parodi, una sorta di Appendix Danteana. Come ricorda il curatore, sul vasto e vario corpus delle Rime dantesche, fra il 1915 e il 1941, si abbatté la mannaia di Michele Barbi, filologo rigorosissimo, ma anche sordo alle ragioni della poesia, ancorato a ragionare per stringenti dicotomie e secondo evidenze lingusitiche o codicologiche. Armato di queste certezze granitiche, Barbi distinse, senza esitazioni, testi autentici, dubbi e apocrifi: quelli che vennero così bollati furono pertanto condannati, sino a oggi, alla irrilevanza, e, di conseguenza, a un lento oblio. Eppure, prima di quella cesura così irrevolcabile, tali poesie meno note, spesso episodiche e sparse, avevano ancora un loro margine di circolazione, in un momento storico che ancora ammetteva incertezze e fluttuazioni. Va ricordato anche un curioso fenomeno: talvolta le stampe antiche suppliscono all’assenza o alle lacune delle testimonianze manoscritte, spesso perdute per noi, ma non per quegli stampatori: e ciò vale non soltanto l’edizione forse più celebre, la cosiddetta Giuntina del 1527, ma anche per una stampa veneziana precedente, meno nota, e molto rara, datata 1518, molto importante, però, perché da essa attingeranno sia una famosa antologia, sempre veneziana, stampata nel 1731 presso Cristoforo Zane, ossia Rime di diversi antichi autori toscani, sia la raccolta di Canzoni dantesche stampata a Firenze nel 1899 presso Salvatore Landi, in edizione limitata di sole duecento copie.  

ZONE D’OMBRA

In questi testi marginali e problematici, tanto poco noti da poter risultare quasi inediti, dunque, emerge un Dante diverso, o meglio, emergono le zone d’ombra del poeta: il tema amoroso si colora di atmosfere più torbide, cupe, ferali, continuando ed esasperando il discorso delle Rime petrose; inoltre, si confermerebbe la presenza in Dante di un elemento magico-esoterico: come ricorda M. Veronesi, stando agli atti di un processo per stregoneria del 1320, Matteo Visconti avrebbe interpellato, per un innominabile maleficio contro Giovanni XXII, proprio “magistrum Dante Aleguiro  de Florencia”! E la Giuntina stessa attribuisce a Dante un sonetto, Io maladico il dì ch’io vidi in prima (qui p. 60), che altri manscritti attribuiscono invece a Cino da Pistoia, nel quale la maledizione scagliata contro una donna crudele e insensibile si proietta anche sull’arte poetica, “l’amorosa lima”, che prima l’ha esaltata rendendola immeritatamente eterna. Ed è invece Pietro Bembo, nelle Prose della volgar lingua, testo capitale per la storia linguistica del nostro Paese, che attribuisce a Dante (forse sulla base di manoscritti per noi perduti) la sestina Amor mi mena tal fiata all’ombra: essa sembra un’eco speculare, o una risposta, all’altra grande sestina lirica, delle Rime petrose, Al poco giorno e al cerchio d’ombra, oggi indicata in tutti i manuali come sicuramente dantesca, che però manoscritti prestigiosi, come il Mediceo Palatino 119, o la pur importante Giuntina, consideravano invece di autore incerto.  Uno dei testi più importanti di questa antologia è poi la grande canzone Virtù che l’l ciel movesti a sì bel punto (p. 92): dedicata all’imperatore Arrigo VII, oggi spesso annoverata fra le rime dubbie di Cino da Pistoia, fu attribuita però a Dante da Sante Pieralisi nel 1853: e addirittura Veronesi azzarda l’idea di una collaborazione fra Dante e Cino, poeta, ma anche grande giustista, nel quadro di ambienti filo-imperiali.

CRINALE SOTTILE

Questi testi, ci ricorda il curatore, pur se dubbi e contestati, e con una storia editoriale tanto accidentata, rispecchiano direttamente o indirettamente, lungo il sottile crinale fra autenticità e apocrifia, creazione primaria e ricezione non passiva, ma creativa, i tratti perenni e sfaccettati del messaggio dantesco; se non altro, rappresentano un capitolo importante della storia del gusto e della cultura, un riflesso creativo della risonanza del nome e del culto di Dante.

MARIO BERNARDI GUARDI

A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri fioccano interrogativi e curiosità su di lui. A partire da nome e cognome: come si chiamava “davvero” il Sommo Poeta? Bè, i documenti sono tanti, e altrettante le incertezze e le ipotesi. Si è comunque d’accordo sul fatto che fu battezzato come Durante di Alighiero degli Alighieri e di Bella degli Abati. Ancora: Dante è un diminutivo di Durante, che nei documenti era seguito dal patronimico Alagherii o dal gentilizio de Alagheris. Alighieri è una variante: la usò per primo Giovanni Boccaccio, estimatore, commentatore e biografo del Divino Poeta. Il quale ci teneva a sottolineare presunte nobili origini, addirittura facendo riferimento a progenitori dell’antica Roma, ma in realtà la famiglia di Dante, nell’album nobiliare fiorentino, non ci faceva una gran figura: e non solo perché babbo Alighiero (che Dante non menziona mai, come non menziona mai la mamma), con ogni probabilità più che cambiavalute faceva l’usuraio, ma perché il “sangue” degli Alighieri non era né fiorentino né toscano. Il cognome Alighieri, nelle sue varianti AlagheriAlaghieriAlageriAlleghieriAdegherii, ma ce ne sono molte altre, rinvia piuttosto alla Valle Padana dove i documenti lo testimoniano con frequenza. E lì fu assunto da Cacciaguida degli Elisei, trisavolo di Dante, eroico combattente alla Prima Crociata e luminosa figura del “Paradiso”, che sposò una lombarda o emiliana di nome Alighiera, da cui sarebbe poi derivato l’eccelso cognome. Dante “nordico”? Di sicuro, per Giosuè Carducci il cognome era di origine germanica. Altrettanto certo che i nazisti al Dante ariano ci credevano, al punto che, su ordine di Hitler, nel 1944, come ha raccontato Sergio Roncucci (Cfr. il n. 44 della Rivista del Pen Italia), le SS, a Ravenna, cercarono di trafugarne il corpo. Ma grazie al controspionaggio USA le ossa erano state sostituite con quelle di un anonimo pescato chissà dove. Una beffa bruciante. E sarà perché la ferita brucia ancora che la stampa tedesca, fieramente antinazista ma pur sempre innamorata della Grande Germania, ha voluto vendicare quella antica figura di m…, facendo a pezzi, qualche mese fa, le celebrazioni dantesche, irridendo allo sproporzionato “Ego” del Divino Poeta e alla sua sopravvalutata opera che, al confronto, ad esempio, con quella di Shakespeare, varrebbe poco o nulla. Un peccataccio, il rancore!

Fonte: Libero, martedì 24 agosto 2021

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