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Karl Valentin, l’uomo dal collo di bottiglia

KARL VALENTIN, L’UOMO DAL COLLO DI BOTTIGLIA

di Chiara Marena

(22/02/2021)

Nella Germania della Repubblica di Weimar, mentre un Angelo azzurro ridicolizzava un rispettabile professore di provincia e un giovane Brecht suonava il clarinetto nei cabaret di quartiere, c’era un popolo di banchieri, impiegati, piccolo borghesi e faccendieri di varia natura che si riuniva la sera nei Tingentangel, i fumosi caffè-concerto bavaresi dove un uomo alto e magro proiettava su questa variegata umanità una sensibilità nuova. Il suo humor intriso di vaudeville veniva preferito alle birrerie e alle conversazioni politiche e ignorato da chi in quel momento stava riprogettando l’assetto mondiale. Quell’uomo si chiamava Karl Valentin, e passerà alle cronache come il comico dell’insondabile e della perplessità.

Tornato alla ribalta negli anni ottanta dopo un lungo oblio, i suoi testi, una raccolta di monologhi, dialoghi e scene, furono pubblicati in un’edizione integrale dall’editore Piper di Monaco che ne ricostruì la figura, un’iniziativa ripresa poi per l’Italia dalla piccola biblioteca Adelphi.

Karl Valentin esordì come clown musicale. Celebre era il suo orchestrion, uno strumento unico che riuniva trombe, tromboni, violini, clarinetti, e che era di una celestiale impossibilità ad esser suonato. Non è un caso infatti che Kurt Tucholsky definisca la sua comicità “una danza infernale della ragione attorno ai due poli della follia”.

Altro suo agglomerato di stramberie fu il Panoptikum. Inaugurato nel ’34 nelle cantine dell’Hotel Wagner, vi si esponevano astruserie di ogni genere, tipo “il nido di uova non deposte, lo stuzzicadenti invernale, l’aria berlinese travasata in bottiglia”.

La sua silhouette allampanata assumeva dei toni grotteschi e surreali; assomigliava a un lungo collo di bottiglia che dava la possibilità di ridere e allo stesso tempo di piangere.

La sua comicità è stata associata a quella di Buster Keaton e a quella di Petrolini, ai quali non era dissimile per enigmaticità e surrealismo. E il suo non sense e il gusto del paradosso lo si ritroverà in Achille Campanile. Ma quello che Karl Valentin comunicava nella patria dell’espressionismo, era vicino per sensibilità allo sbarco sulla luna…! (per andarci con tutte le scarpe abbiamo dovuto aspettare il 1969…). Nell’arco di un trentennio, il clown e cabarettista girò anche numerosi cortometraggi comici e un film per la regia di Max Ophüls, La sposa venduta del 1932.

Le testimonianze di Bertolt Brecht, Herman Hesse, Kurt Tucholsky, e Alfred Polgar sull’attore aggiungono parole nobilitanti e autorevoli: un elemento aggettante in quella facciata gotica che è la figura di Karl Valentin, tutta immersa nell’ombra del proprio mistero.

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