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IL BOLLETTINO DEGLI AUTORI

L’IMPORTANZA DI (NUOVA) YORK

di Giovanni Liberato

(28/09/2021)

Nell’anno 71, Quinto Petilio Ceriale è governatore della Britannia romana e guida la repressione dei Brigantes e dei Parisii; egli fonda la fortezza di **Eboracum (progettata dal proconsole Marco Vettio Bolano nel 69/70), che in albionico arcaico è “luogo degli alberi di tasso”. Il tasso è Y(e)w Three, cioè l’albero sacro di Y(h)w(h).
Nel 441, San Patrizio scaccia il paganesimo dall’Irlanda salendo sul Croagh Patrick, situato nella contea del Mayo che deve il nome all’antico irlandese Magh Eo (“Piana degli alberi di Tasso”).

Nell’anno 867, i Danesi conquistano la Eboracum britannica e le cambiano nome in **Yorvik (da cui **York); simbolicamente, la sacralità del nome viaggerà oltre l’oceano.
Nel 1141, l’attuale Blockhaus è già monte Magella/Maiella, calcando nei nomi la geografia di San Patrizio (Magh Eo/Mayo); nel 1863, la vetta piana (Magh) del Blockhaus diviene fortezza per combattere i “briganti” filoborbonici (come Eboracum combattè i Brigantes).
Nel 1664, Giacomo Stuart, futuro re d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, cambia il nome di Beverwyck in Albany (attuale capitale dello Stato di New York), e quello di Nuova Amsterdam in **Nuova York. Giacomo sposerà una principessa italiana, Maria Beatrice d’Este (la cui nonna, Margherita Mazzarino, era nata a Chieti), e sarà l’ultimo re cattolico del perfido Albione (1685-1688); detronizzato, il primo luglio 1690 battaglierà sul fiume Boyne in Irlanda, ma verrà definitivamente respinto da Guglielmo d’Orange appoggiato dal parlamento protestante.

In estrema sintesi:

Eboracum (70/71)
Yorvik/York (867)
New York (1664)

La distanza temporale 1664-867 e 867-70 è sempre 797.


MAIELLA • IL PERCHÉ DI UN NOME SACRO

di Giovanni Liberato

(30/08/2021)

Nel Medioevo, la decisione dei sapienti: i nomi Magella e Maiella si aggiungono agli oronimi antichi quali Tarino e Poleno/Pallano/Pallense, questi ultimi dovuti alla comune radice consonantica P’L. L’originario Monte Magella dei monaci eremiti è chiamato oggi Blockhaus.

Illuminante è il passo del Chronicon di San Clemente a Casauria (XII secolo), ben individuato dallo scrittore Lucio Taraborrelli di Guardiagrele: «… et fluvio nomine Legio de pede montis Magelle. […] consurgit in celsitudine montis Tarini et per transiens puallense furcam ascendit in montem qui dicitur Ursa…»; il territorio è descritto chiaramente: dal vallone di Santo Spirito (Legio) al Blockhaus (Magelle), fino alla vetta del Monte Amaro (Tarini), e da lì per Passo San Leonardo (puallense furcam) al Monte Morrone (Ursa). Questa fonte attendibile è anche un magistrale bignami di storia ove si mostrano in sequenza filmica le memorie del territorio.

Perché attribuire un nuovo nome a una singola vetta per poi destinarlo all’intero massiccio montuoso? È una questione celeste.

Da vicino, il Blockhaus appare vagamente piramidale come il Croagh Patrick (Cruach Phádraig), il colle dal quale San Patrizio scacciò i serpenti dall’Irlanda, situato nella contea del Mayo (County Mayo, in irlandese Magh Eo che significa “Plain of the Yews”, cioè letteralmente “Radura dei Tassi”, ma symbolicamente “Apertura di Yhwh”). Il mutaforma Blockhaus è infatti riconoscibile per la sua sommità pianeggiante! Lungo il filo rosso del destino, anche il Collemayo aquilano brilla da sempre sulla scia della via celeste.

L’iniziale Monte Maiella/Magella eredita così il testimonio della contea patrizia di Mayo/Magh (Eo).

Inoltre, il santo del trifoglio fonderà ad Armagh (Ard Macha) il primo vescovato della verde isola sull’altura (Ard) di Macha, “dea della radura” (mac- e mag- sono il medesimo, perché a Roma la pronuncia della lettera ‘g’ si distaccherà dalla ‘c’ solo a partire dal III secolo a.C., ed è sulla base della grafia e della pronuncia dell’alfabeto latino che la tradizione sapienziale, in questo caso, si fonda).  


DANTE E MAOMETTO

di Giovanni Liberato

(05/06/2021)

Paul Gustave Doré, Canto XXVIII dell’Inferno, incisione, 1861 ca.

Siamo alle Malebolge (Inferno, XXVIII, 22-63), tra i seminatori di scandali e scismi, in ossequio a una leggenda medievale che descriveva il fondatore dell’Islam quale cristiano apostata. Fatto importante, Muhammad ha il corpo lacerato dal mento al ventre (vv. 25-30):

tra le gambe pendevan le minugia
la corata pareva e ‘l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia
[…]
guardommi, e con le man s’aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco!».

Suo genero Ali, protomartire dello Sciismo, ha il volto spaccato dal mento alla fronte (cioè in perfetta continuità). Le due mutilazioni non sono per nulla casuali:

A) Ali morì per un colpo di spada alla testa (23 gennaio 661); Dante spiega che un diavolo infierisce proprio con una spada su tutti i dannati di quella bolgia.

B) Messer Durante Alagherio, inoltre, ben conosceva il racconto riguardante l’abluzione del cuore del profeta, di cui al primo versetto della Sura XCIV Ash-Sharh (L’Apertura): «Non ti abbiamo forse aperto il petto?». La tradizione islamica narra che due angeli di bianco vestiti, muniti d’una bacinella d’oro ricolma di neve, estrassero il cuore del giovane Muhammad e lo purificarono, asportandone un grumo nero; infatti, nella premurosa profezia del meccano su fra’ Dolcino (un eretico!), il fiorentino si diverte a fargli citare l’astro solare (l’oro della bacinella…) e la neve stessa (vv. 55-60).

Qui come altrove, il sommo poeta è padrone di leggende, storie e tradizioni, perché cantore iniziato alle conoscenze superiori.


LA MOSCHEA DI SANTA MARIA DEL TRICALLE A CHIETI

di Giovanni Liberato

(10/05/2021)

E gli angeli dissero: «Maria, in verità Dio ti ha purificata ed eletta tra tutte le donne del mondo». Questo è il versetto 42 della terza sura del Corano (intitolata “La famiglia di Imran”, padre di Mosè e Aronne).

Lo storico Girolamo Nicolino c’informa che Santa Maria del Tricalle risale al 1322. Il delubro a pianta ottagonale ricalca la figura della Chiesa dell’Ascensione a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, ove Gesù risorto «fu levato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (Atti degli apostoli, I, 9-12).

Quando progettarono l’opera, i costruttori teatini tennero conto che la Chiesa dell’Ascensione era già moschea dal 1198, cioè dal tempo della momentanea riconquista della Città Santa da parte del Saladino (2 ottobre 1187), cui seguì la pace di Ramla che chiuse la III crociata (1192); Gerusalemme sarebbe rimasta sotto sovranità islamica ma aperta ai pellegrinaggi. Ancor oggi, le autorità musulmane che controllano l’area permettono in loco le celebrazioni cristiane.

Da rimarcare il fatto che l’ascensione del Cristo è anche un dogma coranico (IV, 158): «Dio lo ha elevato fino a Sé».

Ogni moschea ha una nicchia (mihrab) che indica la direzione (qibla) verso la quale i fedeli devono prostrarsi; al versetto 144 della seconda sura, infatti, così è prescritto: «Volgiti dunque verso la Moschea Sacra» (Al-Masjid Al-Haram), cioè verso la Ka’ba (l’edificio cubico che conserva la Pietra Nera alla Mecca). Dall’interno di Santa Maria del Tricalle, il mihrab è il portale d’ingresso alla chiesa, magistralmente scolpito e perfettamente orientato, come abbiamo verificato grazie all’amico e architetto Alessandro Iezzi.

Si disvela per Chieti un compito prezioso, antico ma sempre nuovo: aver cura.

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PONZIO PILATO, PROCURATORE O PREFETTO?

di Chiara Marena

(27/03/2021)

Anatole France, Bulgakov ed Elena Bono hanno in comune qualcos’altro oltre al fatto di essere tutti scrittori. Hanno in comune un errore. Un errore di misura circa la figura storica di Ponzio Pilato.
Nel 1902 Anatole France pubblica il racconto Il procuratore della Giudea nel quale descrive un Pilato ormai anziano “un vecchio assai corpulento che, la mano sulla fronte, guardava con occhio cupo e sprezzante […]”, un uomo “crudelmente travagliato dalla gotta” che si mette in viaggio verso i Campi Flegrei dove spera di trovare delle cure che gli arrechino un sollievo. Sulle colline che dominano i bagni di Baia incontra un vecchio amico, che in un primo momento non riconosce.
“Ponzio mio caro ospite, si vede che vent’anni hanno imbiancato assai i miei capelli e scavato le mie guance se tu non riconosci più il tuo Elio Lamia”. Pilato fissa su di lui uno sguardo attento, ma è solo al sentire il suo nome che si ricorda di lui.
“Quanto mi è dolce rivederti, anche se il rivederti mi porta a ricordare i giorni in cui ero procuratore della Giudea, nella provincia della Siria”.
Procuratore quindi, fin qui Anatole France.
Nel 1926 anche Bulgakov si occupa di Pilato. Ne Il maestro e margherita, l’opera postuma e la più celebrata dello scrittore russo, Pilato appare per mano di un Maestro che sta scrivendo una storia su di lui, una revisione del processo a Gesù.
Al mattino presto del giorno quattordici del mese primaverile di Nisan, avvolto in un mantello bianco foderato di rosso, con una strascicata andatura da cavaliere, nel porticato tra due ali del palazzo di Erode il Grande entrò il procuratore della Giudea Ponzio Pilato […]”.
Anche Bulgakov dunque cita Ponzio Pilato come procuratore. Ora dobbiamo pensare che anche lui si sia documentato sulle stesse fonti dello scrittore francese.
Terza ad incorrere nell’equivoco storico fu Elena Bono, scrittrice e poetessa scomparsa nel 2014 non abbastanza celebrata, la quale nel suo libro di esordio del 1956, la raccolta di racconti La morte di Adamo, dedica a Claudia Procula, moglie di Pilato, il più lungo racconto: La moglie del procuratore.
La scrittrice rappresenta la donna ormai in là con gli anni invitata ad una festa offerta dall’amico Seneca nella quale ella rievoca quei giorni lontani in Giudea. Pilato viene rivisto attraverso i ricordi e i giudizi dei convitati alla festa […] una tempra saldissima sotto le sue raffinatezze elleniche […];
[…]una persona incantevole, uno di quegli uomini, che quando muoiono, sembra che anche questo lo facciano per cortesia, come, non so, se avessero avuto un invito a cena dagli dei. […].
Fino a che la conversazione cade sul fatidico giorno del processo.
«Il giudizio di Pilato, lo vogliate o meno, ci pone di fronte a precise responsabilità e traccia una linea d’azione. Non ne potete prescindere. O voi lo smentite… ma non si lascia tanto facilmente smentire…»[…] «Che tu sappia, Claudia, tuo marito si imbatté mai in qualche verità di per sé., fra i suoi archivi, anticamere, rotuli, sigilli e prigioni? Ti disse mai venendo a tavola con un certo ritardo: “Devi perdonarmi, mia cara, ma oggi ho avuto a che fare con la verità di per sé. Spero non mi succeda più.”»
La moglie del procuratore che ci mostra Elena Bono è una donna in imbarazzo che rimane ancora turbata al ricordo di quel giorno. Questa raccolta è considerata il capolavoro della scrittrice italiana.

Quanto alla questione storica in oggetto, Anatole France per le cronache dalla Giudea riguardanti Ponzio Pilato fece riferimento quasi certamente a La guerra giudaica di Flavio Giuseppe, del 74-79 d.C. E viene proprio dallo storico ebreo l’attribuzione del titolo di Procuratore della Giudea:
Pilato, che Tiberio aveva inviato a governare la Giudea come procuratore…”. (Guerra giudaica – Libro II -Cap.9 – vv.2 ).
Lo storico romano Tacito negli Annali (Libro XV, v.44), risalenti all’incirca al 116 d.C., riprende l’attribuzione di Flavio Giuseppe quando riferisce l’episodio dell’incendio di Roma in cui Nerone, sospettato di esserne l’autore, fa’ ricadere le accuse sui cristiani: «[…] Perciò per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, chiamava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso».
Eusebio di Cesarea, teologo e vescovo della Chiesa (IV sec. d.C.), facendo riferimento alle Antichità Giudaiche di Flavio Giuseppe, definisce Pilato governatore:
Lo stesso storico [Flavio Giuseppe], nel diciottesimo libro delle Antichità, attesta che Ponzio Pilato divenne governatore della Giudea nel dodicesimo anno del regno di Tiberio” (Storia ecclesiastica – cap.9).
Nei Vangeli (Matteo 27,2 e Luca 3,1) lo troviamo con il titolo di governatore della Giudea.

La questione storica venne risolta nel 1961 grazie al ritrovamento di un’iscrizione a Cesarea Marittima, sede del governatore della Giudea, datata 31 d.C. nella quale Ponzio Pilato appare con il titolo di prefectus e non di procurator.

Riproduzione esposta a Cesarea marittima.
L’originale si trova al Museo di Israele, a Gerusalemme

Testo ricostruito dagli studiosi:

Prima riga: ]S TIBERIÉUM
Seconda riga: [PON]TIUS PILATUS
Terza riga: [PRAEF]ECTUS IUDA[EA]E

La differenza non è così insignificante. Il procuratore era amministratore dei beni imperiali. Il prefetto aveva un’autorità più ampia, in quanto la prefettura era un territorio che non aveva una magistratura giudiziaria propria, ma riceveva da Roma un magistrato per l’amministrazione della giustizia, e appartenente all’ordine equestre godeva di potere militare e politico per governare e gestire il territorio.

Ritornando al cammino letterario di Ponzio Pilato, sarebbe interessante ora scoprire quali altri scrittori siano caduti nello stesso incolpevole errore riferendosi alle citate fonti. Ma una cosa è certa, il Pilato della storia, il Pilato di ogni storia, procuratore o prefetto che sia, è l’uomo del potere che si chiede cosa sia la verità lungi dall’averla mai indagata, perché svantaggiosa per l’uomo (o la donna) che agisce esclusivamente cercando il proprio interesse, per l’uomo che conosce solo questo.

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L’AMERICA VICHINGA

di Giovanni Liberato

(10/03/2021)

Le saghe islandesi dei secoli XII e XIII hanno raccontato i viaggi verso le Americhe: in larga parte anonime e ritenute narrazioni fantastiche, oggi sappiamo che hanno un fondo storico racchiuso in atmosfere mitologiche.   

Il miracolo letterario della piccola isola di ghiaccio ha magnificato le gesta leggendarie di uno e tanti popoli, da noi posteri raggruppati nella comune immagine dei Norreni (“Uomini del Nord”) e dei Vichinghi (“Uomini dei Fiordi”), dal termine “vik” che indica l’insenatura tipica delle coste settentrionali dell’Europa. Genti di certo legate alle proprie terre e al proprio vic(olo), ma aperte allo spirito avventuriero.

L’epopea ha in Leif detto Heppni (“il Fortunato”), figlio di Erik il Rosso, l’eletto che ricevette l’incarico di esplorare il nuovo mondo da parte di Olaf Tryggvason, cattolico re di Norvegia convertitosi al Cristo nel 991. L’ordine proveniva da Roma. Leif sposerà la principessa Thorgunna delle Ebridi nel 999 e l’assemblea del popolo islandese abbraccerà infine il Cristianesimo, sulla falsariga della decisione dei druidi irlandesi risalente al 441, quando San Patrizio scacciò i serpenti dalla verde isola, una volta asceso al sacro monte della contea celeste del Mayo (il Croagh Patrick).

Nel 1075, i racconti del nuovo mondo erano già storia grazie all’inchiostro di Adamo da Brema: nella sua “Descriptio insularum Aquilonis” delineava paesaggi artici e un luogo scoperto più volte…, chiamato Winland, ove cresceva la vite selvatica; lo aveva istruito un protagonista diretto, tale Thorfinn, secondo marito di Gudrid Thorbjarnardottir, la quale darà alla luce il primo europeo d’America poco dopo il Mille: Snorri Thorfinnsson. In prime nozze, Gudrid aveva sposato un fratello di Leif. In Islanda, madre e figlio sono degnamente ricordati con una statua intitolata “First white mother in America”. La discendenza darà tre vescovi islandesi.

Lei chiuderà la sua esistenza come eremita in patria, al ritorno da un viaggio “verso sud” che il buon lettore è di certo in grado di decifrare.  

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KARL VALENTIN, L’UOMO DAL COLLO DI BOTTIGLIA

di Chiara Marena

(22/02/2021)

Nella Germania della Repubblica di Weimar, mentre un Angelo azzurro ridicolizzava un rispettabile professore di provincia e un giovane Brecht suonava il clarinetto nei cabaret di quartiere, c’era un popolo di banchieri, impiegati, piccolo borghesi e faccendieri di varia natura che si riuniva la sera nei Tingentangel, i fumosi caffè-concerto bavaresi dove un uomo alto e magro proiettava su questa variegata umanità una sensibilità nuova. Il suo humor intriso di vaudeville veniva preferito alle birrerie e alle conversazioni politiche e ignorato da chi in quel momento stava riprogettando l’assetto mondiale. Quell’uomo si chiamava Karl Valentin, e passerà alle cronache come il comico dell’insondabile e della perplessità.

Tornato alla ribalta negli anni ottanta dopo un lungo oblio, i suoi testi, una raccolta di monologhi, dialoghi e scene, furono pubblicati in un’edizione integrale dall’editore Piper di Monaco che ne ricostruì la figura, un’iniziativa ripresa poi per l’Italia dalla piccola biblioteca Adelphi.

Karl Valentin esordì come clown musicale. Celebre era il suo orchestrion, uno strumento unico che riuniva trombe, tromboni, violini, clarinetti, e che era di una celestiale impossibilità ad esser suonato. Non è un caso infatti che Kurt Tucholsky definisca la sua comicità “una danza infernale della ragione attorno ai due poli della follia”.

Altro suo agglomerato di stramberie fu il Panoptikum. Inaugurato nel ’34 nelle cantine dell’Hotel Wagner, vi si esponevano astruserie di ogni genere, tipo “il nido di uova non deposte, lo stuzzicadenti invernale, l’aria berlinese travasata in bottiglia”.

La sua silhouette allampanata assumeva dei toni grotteschi e surreali; assomigliava a un lungo collo di bottiglia che dava la possibilità di ridere e allo stesso tempo di piangere.

La sua comicità è stata associata a quella di Buster Keaton e a quella di Petrolini, ai quali non era dissimile per enigmaticità e surrealismo. E il suo non sense e il gusto del paradosso lo si ritroverà in Achille Campanile. Ma quello che Karl Valentin comunicava nella patria dell’espressionismo, era vicino per sensibilità allo sbarco sulla luna…! (per andarci con tutte le scarpe abbiamo dovuto aspettare il 1969…). Nell’arco di un trentennio, il clown e cabarettista girò anche numerosi cortometraggi comici e un film per la regia di Max Ophüls, La sposa venduta del 1932.

Le testimonianze di Bertolt Brecht, Herman Hesse, Kurt Tucholsky, e Alfred Polgar sull’attore aggiungono parole nobilitanti e autorevoli: un elemento aggettante in quella facciata gotica che è la figura di Karl Valentin, tutta immersa nell’ombra del proprio mistero.

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IL PIEDE DEL PELLEGRINO

di Giovanni Liberato

(18/12/2020)

Cos’è il piede del pellegrino? È un’incisione medievale a forma di suola che rammenta il cammino del cristiano, ma rimanda anche alle orme del Cristo in Santa Maria in Palmis a Roma (Chiesa del Domine Quo Vadis).

L’immagine è stata incisa in Santa Maria d’Arabona (Manoppello), in Santa Maria della Catena (Chieti, Madonna delle Piane) e alla Madonna del Carmine (Chieti, La Civitella). Lupus in fabula, in quest’ultima chiesa è dipinta una cacciata di Lucifero del pittore tetide Donato Teodoro (1739), che ben s’annoda al discorso sulla antropomorfizzazione del divino. I simboli di cui si narra, assieme a tanti altri, sono posizionati sulle soglie dei delubri, cioè sul limite tra l’ordinario quotidiano e lo straordinario di ciò che è sacro, “separato”.

Chi ha scolpito la sagoma dei sandali ha voluto unire le due città, perché Manoppello è Alterum Teate (un’altra Chieti), in quanto etnicamente marrucina e da sempre in diocesi teatina. Le tre chiese sono tutte dedicate alla Vergine e sono tutte duecentesche; sono inoltre situate simbolicamente su tre alture, luoghi divini per eccellenza. Santa Maria de Civitellis domina essa stessa la collina di Teate in quanto posizionata sull’acropoli preistorica, italica e romana.

Cistercense la prima, celestina la terza, misteriosa invece la paternità di Madonna delle Piane, nella doppia accezione di ciò che non è conosciuto e di ciò che più semplicemente “riguarda i misteri”; datata 9 dicembre 1711, l’interessante memoria che narra della tavola con la Madonna che regge una catena di ferro (“celeste Immagine”), contiene volutamente un anacronismo e connette le Piane al Volto Santo mediante la dicitura “Non si trova Pittore…”.

“Ara” in latino significa “altare”, quindi Arabona è l’altare della dea Bona; la zona di Madonna delle Piane è l’antica Colle dell’Ara, quindi genericamente Colle dell’Altare (al Dio sconosciuto?). La zona della Civitella fu ribattezzata Colle di Marte dai Celestini per chiudere il cerchio della classicità dei toponimi.

Il perché dello schema? Solo se si crede alla domanda si nutrirà il dubbio nelle risposte.

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I DUE OPPOSTI?

di Manuela Zingone

(18/12/2020)

Mente e Cuore
Pensiero e Sentimento
Maschile e Femminile
Potere e Nutrimento

Siamo certi che stiamo vivendo un momento così “brutto” come molti amano definirlo?
Ogni parto, ogni nuova nascita necessita di un periodo di incubazione nel ventre liquido, nutriente ed oscuro per venire alla luce.
Una grande frattura, una rottura dolorosa apre il processo.
L’AZIONE è l’energia che si mette in moto per permettere alla farfalla di irrorare le sue ali, uscire da quel ventre oramai troppo stretto e VOLARE.
Cosa accadrebbe alla farfalla se non accettasse il cambiamento che la VITA gli sta chiedendo?
Morirebbe.
Stiamo vivendo un processo che, per quanto doloroso, ci sta portando verso un CAMBIAMENTO epocale, necessario e… LUMINOSO.
Si LUMINOSO, perché dopo il buio c’è sempre il giorno, ed il buio è necessario al giorno per esistere, come è vero il contrario.
Serve una presa di CONSAPEVOLEZZA, servono nuovi paradigmi, serve coraggio per SALTARE.
Serve più AMORE, perché é la spinta di FIDUCIA che solo le DONNE possono insegnare.
Siamo in buone mani, quelle di GAIA, perché TERRA é MADRE, donna, amorevole.

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LIBERTÀ

di Giovanni Liberato

(20/11/2020)

Molti connazionali, durante la seconda ondata del Coronavirus, sono scesi in piazza per manifestare il loro dissenso. In diverse occasioni, mi colpì la parola d’ordine che sentii urlare dalla folla e che vidi scritta sugli striscioni: libertà.

Nel pieno di una pandemia mondiale, essa risuonava estranea ai miei occhi, perché non teneva in conto il mito astratto dell’economia nazionale, ma invero esponeva la carne viva del singolo. Quella richiesta, gettata in aria come una volta i sampietrini, da quale selciato veniva asportata?

Ai giorni nostri, la libertà non è più solo un ideale astratto, ma è stata rovesciata in obiettivi di governo. In quanto mero punto programmatico di un piano politico, è concretamente irraggiungibile e irrealizzabile; la mutata natura ancillare è ben funzionale al sistema finanziario, quindi subordinata. Rivendicarne l’impossibile soluzione pratica è come abbaiare alla Luna.

Dalla rivoluzione francese in poi, l’uomo moderno e contemporaneo ha creduto e crede che la politica sia il campo di risoluzione dei problemi; crede che tutto sia politica.

Nel profondo, ho immaginato e digitato in semplice html un superamento di questa libertà meccanica, sempre conclamata davanti al fuoco sacro delle elezioni. Ho invocato il suo spirito più autentico prima di bruciare il foglio elettronico del rito effimero.

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SERIO E FACETO

di Giovanni Liberato

(14/04/2020)

Non tutti sanno che, alla base dell’italiano illustre di Sicilia e Toscana, vi furono i pianti funebri per la passione del Cristo; questi componimenti si svilupparono a partire dal secolo XII in Centro Italia, e sono vivi ancora oggi in forma di canti popolari.

Della stessa area geografica e del medesimo secolo, il dodicesimo, è la lamentazione giudaico-italiana intitolata splendidamente: “Le ienti de Sïòn plange e lutta”; proprio in quel tempo, nel 1165, il viaggiatore spagnolo Beniamino di Tudela incontrava giudei recabiti in Arabia che non mangiavano carne, non bevevano vino e lamentavano la caduta di Gerusalemme.

Certo, già un certo Gesù ben Anania era solito declamare: «Povera Gerusalemme, povero il popolo, povera la città, povero il Tempio!»; morì durante il celeberrimo assedio dell’anno 70, non prima d’aver frullato ironia, satira e sarcasmo nel suo lapidario epitaffio: «E poveretto anche me!».

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VERRANNO

di Tino Di Cicco

(26/03/2020)

verranno tempi migliori

adesso non ti posso abbracciare

né baciare

adesso non ti posso neanche toccare

forse avevamo già tutto

e non lo sapevamo

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SENTIRSI FOGLIA, NUVOLA VENTO

di Grazia Di Lisio

(25/03/2020)

Sentirsi foglia, nuvola vento

alito leggero.

Come di Loi – Angel rarefatto –

sentirsi particella di fibra

universale 

prendere in mano la luna

tra timide stelle

aleggiare in un immenso abbraccio

in nuovi spazi

limpidi …fratelli

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L’ALBA DORATA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS 

di Valentino Ceneri

(14/03/2020)

L’angoscia e la speranza si mescolano nella necessità di rallentare i passi per salvarsi la vita. Ma dobbiamo avere il coraggio di comunicarci pensieri sulla natura delle cose per cercare di fare del nostro tempo una occasione per capire chi siamo e che ruolo abbiamo nel rapportarci con la natura che, a detta dei saggi, “non perdona mai!”. Partiamo dal fatto che i virus ci hanno preceduto di almeno 300 mln di anni nel popolare la terra. La mutazione dai cercopitechi (12 mln di anni fa) fino all’Homo sapiens sapiens (45 mila anni orsono) è stata una lunga galoppata creativa della natura che ha sbalordito se stessa aggiungendo il pensiero e la comunicazione verbale/simbolica dando all’uomo una sovranità sul mondo che sicuramente dovrebbe essere usata con più responsabilità. Questo vuol dire che dobbiamo crescere nella capacità/ABILITÀ a dare RISPOSTE più adeguate al nostro ruolo. Il quale ruolo dovrebbe essere gestito da una MENTE. S A N A. Siamo sicuri di avere una mente sana, un cuore puro e un plesso solare (pancia) non danneggiato? Dalla nascita a dall’infanzia ci portiamo dentro tanti rospi pronti a scagliarsi con il primo che incontriamo. La psicopatologia del profondo ci avverte che siamo vittime di distorsioni transgenerazionali. Siamo malati da curare e comunque da guardarsi allo specchio. C’è sempre una correlazione tra mente e soma. O meglio tra ANIMA e CORPO. 

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