Tutti pensiamo di essere onesti parlando della “realtà”, e tutti forse lo siamo. Ma noi siamo condannati dai nostri bisogni a leggere il mondo partendo da noi, e non dalla “verità”. E fra i bisogni più impellenti e più impliciti, c’è quello di avere prestigio.
Noi moriremo senza aver mutato di molto il nostro infantile rapporto con la realtà : da bambini siamo stati cullati come dentro una specie di delirio di onnipotenza ( l’amore dei genitori è stato il nido per questo sogno); poi, piano piano la realtà ci ha riconsegnati ad un ruolo più modesto. Ma non perdiamo mai il desiderio di ricongiungerci a quel sogno.
Pensiamo tutti di valere più di quello che ci viene riconosciuto; vorremmo crescere continuamente nelle quotazioni del prestigio sociale, perché pensiamo che solo così si “realizzi” la nostra persona (“il pericolo maggiore non è la tendenza del collettivo a comprimere la persona, ma la tendenza della persona a precipitarsi, ad affogare nel collettivo” – S. Weil , morale e letteratura pag 45).
Ma la società, il mondo degli uomini, non è tutto il “mondo” : ne è solo una piccola parte. E chi con più tracotanza gareggia per acquisire prestigio e potere tra gli uomini, ha già perso il contatto con le stelle.
E’ come se dentro una piccola isola sperduta nell’oceano esistesse solo una comunità mafiosa : per “realizzarsi” in questa comunità, occorre essere il più bravo nelle logiche mafiose, e non il cittadino più onesto ( che forse sarà messo in croce subito).
Tra la comunità mafiosa dell’isola e quella più ampia diffusa sulla terra, non c’è differenza di qualità, ma solo di quantità.
Noi vorremmo essere onesti, puri; ma il bisogno di “valere” nella tribù degli umanoidi è insopprimibile, e questo bisogno piega la nostra onestà, verso una specie di omertà verso il clan di appartenenza.
Anche perché il “valore” da tutti ambito non ci viene riconosciuto dalla luna, ma dagli altri uomini. Per guadagnarlo noi rinunciamo al rapporto con il trascendente, per rinchiuderci sempre più nel clan dove diventeremo finalmente “caporale” (“L’illusione sulle cose di questo mondo non concerne la loro esistenza bensì il loro valore. L’immagine della caverna si riferisce al valore. Noi possediamo solo ombre di imitazione del bene. E’ altresì in rapporto al bene, che ci troviamo ad essere prigionieri, incatenati (l’attaccamento). Accettiamo i falsi valori che ci appaiono, e, quando crediamo di agire,siamo in realtà immobili, perché rimaniamo entro il medesimo sistema di valori” (S.Weil, l’ombra e la grazia pag 62).
Noi cerchiamo continuamente il consenso degli altri per accrescere il nostro “valore”; ma per ottenere quel consenso dobbiamo cedere ai loro “valori”.
Se si tratta di valori mafiosi, dobbiamo diventare il più bravo dei mafiosi : solo così diventeremo l’imperatore dell’isola.
Dobbiamo restringere sempre più l’orizzonte che per un momento si è aperto alla nostra adolescenza, fino a farlo coincidere con la piccola prospettiva dove si è rintanata la maggioranza.
Perché un tempo, almeno per un istante, prima di cedere a questa realtà, la nostra prospettiva è stata ab-soluta. Distaccata cioè dalla vicenda umana e dalle sue gerarchie di “valore”.
Poi piano piano siamo entrati nel cunicolo dove un capopopolo si illude di essere un Dio, e dove tanti sudditi lo aiutano ad illudersi; dove chi non si rassegna ai “valori” che qui regnano è un eretico, un folle, un uomo inutile.
E la più inconfessabile paura condivisa dagli abitanti del cunicolo, è quella di non apparire sufficientemente “affidabili” dal punto di vista dei poteri della tribù d’appartenenza.
Potrà sembrare strano, ma la realtà che condiziona la nostra vita, non è quella toccabile con mano, ma quella decisa dalla nostra fede. E se i poteri costituiti si rendono conto che la nostra fede non è com-patibile con la loro, sanno istintivamente che diventiamo pericolosi; perché se qualcuno si dis-socia dalla loro credenza, potrebbe sgretolarsi l’edificio entro il quale loro hanno guadagnato prestigio e potere. E questo non lo possono tollerare. Per questo : guai all’eretico !
Una diversa lettura del mondo, una diversa fede cioè, può essere esiziale per le gerarchie di “valore” riconosciute dalla comunità. Per questo l’omertà, l’ipocrisia, la finzione sono “valori” massimi nella comunità che ci ospita. Servono a “cementare” fiducia nella “realtà”; in questa “realtà”: dove qualcuno ha deciso che la cravatta appesa al collo contraddistingua la persona per bene; e tutti a seguire :” la realtà del mondo è fatta da noi, col nostro attaccamento. E’ la realtà dell’Io trasportata da noi nelle cose. Non è affatto la realtà esteriore”(S.Weil, l’ombra e la grazia pag. 27).
Dentro questo cunicolo siamo come prigionieri di una “ragione” che ci fa dire solo quello che ci si aspetta da noi;anche senza che ce ne rendiamo conto. Dobbiamo infatti difendere il nostro prestigio sociale, e dobbiamo perciò accontentare quelli che ci garantiscono quel “prestigio”. Siamo condizionati da quello che i “nostri” si aspettano da noi.
Il nostro “prestigio”non esisterebbe se gli altri soci della tribù non ce lo riconoscessero. E siccome quel prestigio ci è indispensabile per vivere, diventiamo,prima consapevolmente, poi sempre più inconsapevolmente, complici della “verità” che passa il mercato. Complici di ragioni che un tempo non abbiamo condiviso, ma che finiamo con l’accettare per paura di essere messi fuori del gioco, e perdere così il nostro “valore” sociale.
Dentro questa “realtà” veniamo considerati “maturi” solo se sappiamo dimenticare in fretta la grande speranza che eravamo : continuare a vivere tutta la vita con nostalgia verso i mondi che non esistono, e che pure portiamo dentro noi, è condannarci al fallimento sicuro tra gli uomini. E siccome nessuno vuole il proprio fallimento, tutti ( o quasi) facciamo a gara per recitare il ruolo dei più convinti assertori dei “valori” di questo nostro mondo.
Difficilmente però si può credere a quelli che dentro la nostra “realtà” dicono di sapere come funzionano le cose umane o quelle divine: sono falsi, anche quando sono sinceri. Perché la selezione del “vero” e del “falso” loro la fanno prima ancora di parlare; anzi , prima ancora di pensare.
Perché per essere credibili dagli uomini, occorre dire quello che gli uomini desiderano venga detto : “l’idolatria ha origine dal fatto che, assetati del bene assoluto, non si possiede l’attenzione sovrannaturale e non si ha la pazienza di lasciarla sorgere …… L’idolatria è dunque , nella caverna, una necessità vitale. Anche fra i migliori, è inevitabile che essa limiti strettamente intelligenza e bontà” (S.Weil, l’ombra e la grazia, pag. 71).
Se qualcuno non capisce e continua a credere che la ricerca della verità sia più importante dell’accettazione dei valori condivisi, verrà espulso dal clan; e come sanno bene le gerarchie di tutte le chiese: extra ecclesiam nulla salus (“Solo entrando nel trascendente, nel sovrannaturale, nell’autentica spiritualità l’uomo diventa superiore alla socialità. Fino a quel momento, in realtà, qualunque cosa faccia, la socialità è trascendente rispetto all’uomo”S.Weil, l’ombra e la grazia pag. 165).
E più si sale nelle gerarchie delle diverse sette/chiese, più si crede che il mondo sia“vero”; più si diventa “seri”; più ci si allontana però dall’assoluto.
Orfani di questa trascendente unità di misura, ci illudiamo che il nostro mondo sia una cosa “vera”. E dentro questo piccolo recinto ci misuriamo con strumenti sempre più plebei, per trovarci onorevoli ed eminenti.
Ma misurati dal punto di vista dell’ab-soluto, le nostre differenze sociali sarebbero inconsistenti; di più, sarebbero inesistenti. Ed allora i baroni rampicanti nelle gerarchie sociali dovrebbero ammettere di essere uguali agli altri. E tra uguali non c’è gerarchia possibile. Ma senza gerarchie non ci sarebbero capi e potere; non ci sarebbe quel prestigio sociale che alimenta come nient’altro il bios dell’uomo ( “una mente che sente la propria prigionia vorrebbe dissimularla. Ma se ha orrore della menzogna, non lo farà. Dovrà allora soffrire molto. Batterà la testa contro la muraglia fino allo svenimento; si sveglierà, guarderà la muraglia con timore, poi un giorno ricomincerà e sverrà di nuovo; e così di seguito, senza fine, senza alcuna speranza. Un giorno si sveglierà dall’altra parte del muro. Forse è ancora prigioniero, in una cornice soltanto più spaziosa. Che importa? Ormai possiede la chiave, il segreto che fa cadere tutti i muri. E’ al di là di ciò che gli uomini chiamano intelligenza, dove comincia la saggezza”(S.Weil, morale e letteratura pag 59).
Ma alcuni della nostra razza non hanno gli anticorpi per entrare in questa recita, e restano estranei al gioco.
Non cercano il prestigio che ci rende fieri; non ottengono quel potere che è il nostro massimo vanto : sono gli ultimi (“Parentela del male con l’essere, con la forza; e del bene con la debolezza, col nulla” S.Weil, l’ombra e la grazia pag. 111)
Essi non sono come noi : loro non “contano” niente nella società; non sono vincolati alla nostra recita, perciò possono guardare il mondo con cuore libero. Gli ultimi non debbono difendere alcun prestigio sociale, perciò non sono obbligati neanche a condividere i “valori” che organizzano il nostro mondo. Loro sono liberi : per questo possono entrare nella verità.
Non devono costringere il loro pensiero a passare al vaglio deformante del potere degli uomini.
Possono guardare il cielo con occhi innocenti, non sono incatenati alla terra come se fosse la nostra più vera dimora.
Tino Di Cicco