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C’era una volta il daimon

C’era una volta il daimon. E il daimon era la notte e il giorno; era il bene e il male; era uomo e dio.
Il daimon era una potenza senza morale come, ancora più potenti, ma sempre senza morale, erano gli dei della Grecia.
Il daimon era l’impossibilità di separare il bene dal male, e questo groviglio, questa irriducibilità dell’agire umano ha generato il pensiero tragico: la più alta intuizione mai vissuta dall’uomo (la tragedia, ha scritto Hegel, si realizza in quei conflitti in cui entrambi i personaggi hanno ragione).
Venne poi il sentimento ebraico-cristiano-musulmano e fu la moralizzazione delle potenze trascendenti l’uomo. E questa moralizzazione ha reso impossibile la tragedia, perché si sapeva sempre dove stava il bene e dove stava il male.
Scomparso il sentimento tragico, i monoteismi hanno consegnato all’uomo un Dio moralizzato secondo i bisogni dell’uomo. Ma un Dio razionalizzato a misura d’uomo non era più il Signore dell’uomo, ma il suo servo.
Con la vittoria del monoteismo sul destino, il mondo è stato semplificato e banalizzato: abbiamo perso la poesia per ottenere i vantaggi della tecnologia.
Ma la poesia parlava all’uomo dell’uomo, la tecnologia invece è capace solo di parlare d’altro.
La tecnologia parla ad un bambino che non diventerà mai adulto, perché per diventare adulti occorre confrontarsi con la paura, con l’incertezza e con il dolore.
Ma la tecnologia ha vinto proprio perché nasconde all’uomo la paura, l’incertezza e il dolore.
Non poteva, non sapeva, parlare all’uomo.
Liberato dal dolore, dall’inquietante, dallo spaesante, dal tragico appunto, l’uomo ha potuto organizzare una più comoda rappresentazione del mondo.
Dove il daimon non era più il tremendo intermediario tra uomo e dio, ma è stato costretto a scindersi per diventare due: da una parte l’angelo e dall’altro il demonio.
Abbiamo così separato per sempre il bene dal male, il trascendente dall’immanente, l’uomo da dio.
Ma se questa razionalizzazione del mondo ci ha garantito la copertura alle spalle di quel daimon buono nel frattempo diventato angelo, ci ha privati per sempre del confronto “tragico” con il daimon.
Quando l’uomo perde l’inquietudine, lo stupore, il terrore di essere al mondo, potrà migliorare il PIL, ma perde l’intensità della relazione con il mondo. E questa relazione, questa densità, è poiesis: è creazione di un mondo “divino” in cui vivere.
Questa relazione è quella capace di realizzare l’uomo al massimo grado, perché è quella capace di generare amore.
Perché l’amore non è solo questione di uomo e donna; può anche esserlo, ma può essere anche molto di più: “se l’amore non trova nessun oggetto, l’essere che ama deve amare il suo stesso amore…..allora si è trovato dio” .
Ma perché l’amore sia di più,l’uomo deve sentire sempre sul collo il fiato del tremendo e dell’inquietante. Così può continuare ad abitare l’origine, dove lo stato d’animo fondamentale (lo spaesamento generato dallo stupore e dal terrore) rende indispensabile l’amore per resistere.
E più è profondo in noi il trauma che ha generato l’esperienza dello stato d’animo fondamentale, più diventa “urgente”, esclusivo,assoluto, il nostro bisogno di amore.
Quando Antigone non si rassegnava alle leggi degli uomini per spingere il suo amore al di là della morale della polis, era il suo daimon a spingerla.
Ed era il daimon ad impedire a Gesù di arrendersi alla Legge, e di aprirsi all’amore per tutti gli uomini: anche per l’adultera, per il peccatore, per il nemico…….
L’amore è come il daimon: abita i confini, non i luoghi protetti dalla nostra ragione. Conosce l’inconoscibile, non le parole parlate dagli uomini. Vive il divino, non può rassegnarsi alla nostra morale.
Chi è sicuro di abitare il bene, chi ha un Dio Onnipotente che lo protegge dal male, non ha bisogno di amare.
Amano i solitari, gli sconfitti, i folli, non gli uomini garantiti da una solida identità (“chi vuol salvare la propria anima la perderà”).

è tutto vero
troppe volte ho cercato la luna
invece del tuo cuore

ma io ero sicuro
che solo trovando la luna
avrei incontrato il tuo cuore

Tino Di Cicco, XLIV

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