Siamo qui, confusi, increduli, stupiti,ma tutti con lo stesso bisogno : abitare il bene.
E’ la nostra più profonda necessità, quella che più ci accomuna, quella che non ammette eccezioni :“tutti gli esseri umani sono assolutamente identici nella misura in cui possono essere concepiti come costituiti da un’esigenza centrale di bene attorno alla quale si dispone un po’ di materia psichica e carnale” (S. Weil).
L’aspirazione al bene non è una scelta, è una esigenza incancellabile dentro la nostra natura. Come per la rondine volare; come per il mandorlo fiorire.
E’ talmente pre-potente il nostro orientamento al bene, da farci credere che ogni nostro pensiero, ogni nostra parola, ogni nostra azione è stata generata per realizzare il bene. Non ci basta il pane per vivere: abbiamo bisogno anche di dare un senso al nostro respiro. E il senso è generato dalla nostra aspirazione al bene.
Aveva ragione Platone quando diceva che l’idea del bene ha dentro noi la stessa efficacia che il sole ha fuori di noi : orienta, illumina, certifica.
Ma non bisogna mai fare confusione tra il necessario e il bene :”il tratto comune di ogni morale Platone l’ha espresso con una formula insuperabile :”essi definiscono giuste e belle le cose necessarie, perché ignorano quanto grande sia la distanza che separa l’essenza del necessario e quella del bene”( S.Weil).
Per millenni gli uomini hanno avuto una qualche consapevolezza della distanza che separa il necessario dal bene : Dio, l’ideale, lo spirituale, il divino, sono stati alcuni dei nomi di questo bene trascendente. E la realtà di questo bene “conteneva” gli uomini. Li obbligava all’umiltà.
Era anche inevitabile dover pensare al necessario; ma il necessario restava il necessario, il cielo una tensione assoluta.
Oggi invece quest’equilibrio sembra perdersi; ad esclusivo vantaggio della società, del “necessario” :“nel corso del novecento si è cristallizzato un processo di enorme portata, che ha investito tutto ciò che passa sotto il nome di “religioso”. La società secolare , senza bisogno di proclami, è diventata ultimo quadro di riferimento per ogni significato, quasi che la sua forma corrispondesse alla fisiologia di qualsiasi comunità e il significato si dovesse cercare solo all’interno della società stessa”,(R. Calasso, l’innominabile attuale ).
Reclusi sempre più dentro la caverna-società stiamo perdendo il contatto con la realtà trascendente, e il rapporto con quella realtà non è un regalo che noi facciamo al trascendente, ma a noi stessi. E forse anche per questa perdita cresce il malessere neuro-psicologico dentro i nostri quartieri. Cresce nonostante non manchi il pane; cresce come se fossimo orfani di qualcosa a cui non sappiamo dare più neanche il nome.
Noi siamo mossi solo e sempre dal bene, ma se l’unica realtà che conosciamo è la società, non possiamo non restare prigionieri dei “valori” della “caverna” : quelli sociali prima e quelli individuali poi.
Ed è inevitabile che sia così. Se l’unica realtà riconosciuta è la società e i suoi componenti, l’io e la società debbono diventare l’unico bene. E’ questa la nostra tragedia.
Solo una sventura : il carcere, una grave malattia,una guerra, un figlio perso nella droga, un amore tradito…., possono renderci consapevoli della nostra totale irrilevanza nel mondo. Occorre che qualcosa ci esponga nudi di fronte a noi stessi. Solo allora l’esperienza della nostra miseria può liberarci di noi.
Ma quando scopriamo la nostra illusorietà, occorre molta onestà per reggere la sofferenza. Perché le illusioni che generano la nostra identità, sono le stesse che alimentano il nostro “valore”. E nessuno vuole perdere “valore”. Nessuno vuole identificarsi con il nulla. E’ sofferenza pura.
Ma se riusciamo a non mentire e cominciamo ad intuire di non essere noi il bene, si apre come una frattura dentro noi : da una parte noi, dall’altra il bene. E per restare uniti al bene, ci distacchiamo da noi.
Così il distacco non è una scelta, ma una necessità. Tra noi e il bene dobbiamo scegliere il bene; è la nostra natura.
E come per miracolo, liberandoci dalle illusioni che alimentano il nostro io, veniamo invasi dalla realtà. E la realtà è gioia senza perché.
Senza l’io, senza la nostra identità, senza la nostra volontà, torniamo ad essere “divini”. Perché il divino è l’uomo prima di essere individuo, è gioia prima di conoscere il tempo, è esistenza senza alcun perché.
Tino Di Cicco