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“Le strade dell’Apartheid”: il racconto di tre popoli lontani in lotta per la libertà

Intervista a Luca Greco su Altreconomia.it

“Il fotografo attivista Luca Greco ha raccolto in un libro le immagini e le testimonianze delle condizioni dei palestinesi, nordirlandesi e saharawi. Una mostra che è diventata spettacolo teatrale per evitare che le storie cadessero nell’oblio.”

MANUELA VALSECCHI SU ALTRECONOMIA.IT
Ristorante. Smara refugee camp. Algeria © Luca Greco

“Le strade dell’apartheid” è un libro, nato da una mostra fotografica, con l’obiettivo di tenere fede alla promessa che l’autore Luca Greco ha fatto alle donne e agli uomini che vivono i luoghi raccontati dalle immagini: quella di raccontare. Il volume, pubblicato nel marzo 2020 da Edizioni Mondo Nuovo, racconta infatti il destino di tre popoli lontani -palestinesi, nordirlandesi e saharawi-, accomunati dal fatto di essere stati privati della propria libertà. Ne parliamo con l’autore, sindacalista, attivista e fotografo.

“Apartheid” è un termine che indica un regime preciso e storicamente collocato, che ci riporta alla segregazione razziale del Sudafrica. Perché ha scelto questa parola per descrivere i tre contesti?
LG È stata questa parola a scegliermi. Camminando per Hebron (città palestinese della Cisgiordania che vede al proprio interno insediamenti israeliani e dove 40mila palestinesi non sono liberi di spostarsi, ndr) ho visto un murales che recitava “Welcome to the apartheid street”: in quella città ci sono strade che possono essere percorse solo da ebrei, inaccessibili ai palestinesi. E questo l’ho trovato anche in Irlanda del Nord, dove ci sono interi quartieri percorribili solo da cattolici e altri in cui si può entrare solo sei protestante e questo vale per le strade, le scuole, gli ospedali, i bar e addirittura per i cimiteri. Per cui mi è parso un termine estremamente attuale: dovunque ci siano luoghi in cui qualcuno non può entrare per questioni etniche, religiose, di genere, quello è un luogo di apartheid.

Nell’introduzione del libro si legge che lo scopo del racconto fotografico è quello di “narrare il poema scomparso degli uomini sconfitti”, come diceva il poeta palestinese Mahmoud Darwish. Il rischio è che queste storie cadano nell’oblio?
LG 
Darwish diceva che esiste una storia di Troia narrata anche da chi ha perso e il mio compito è quello di raccontare le vicende degli sconfitti della storia. Ma questo vale in generale: siamo immersi in una concezione conformista per la quale la storia è fatta dai vincitori, ma c’è anche un’epopea degli sconfitti che se nessuno racconta è destinata a cadere nel dimenticatoio. Il filosofo ebreo-tedesco Walter Benjamin nella nona delle sue tesi “Sul concetto di storia” racconta della tela di Paul Klee “Angelus Novos”, che oggi si trova a Gerusalemme. Vi è ritratto un angelo sospinto in avanti con le ali spiegate, che vorrebbe fermarsi e salvare gli uomini dalla catastrofe, ma non può farlo perché spinto in avanti dal progresso. Questa è la nostra società che ha una fiducia incrollabile nel progresso e in questo meccanico lineare crea distruzione e macerie dentro di sé: compito mio è provare a raccontare queste storie perché non vengano dimenticate. 

Nel libro ricorre il concetto di “divisione”: la Palestina è un (non) Stato diviso per definizione, il Nord Irlanda è stato diviso dal resto dell’isola, i saharawi sono divisi tra il Sahara occidentale e l’Algeria. Come si fotografa la divisione?
LG È un progetto meraviglioso che non sono ancora riuscito a realizzare del tutto. Il popolo saharawi venne espulso dal suo territorio dal re del Marocco nel 1973 e dopo un esodo è stato accolto in Algeria in enormi campi profughi. Le persone hanno dato dei nomi a questi campi, gli stessi delle città che avevano dovuto abbandonare: quindi oggi esistono due Smara, due Dakhla, due El Ayoun, una nei campi profughi e una nel Sahara occidentale, dove i saharawi vivono in condizioni difficilissime, ci sono dei video di violenze delle forze dell’ordine marocchine che ricordano quelle del G8 di Genova del 2001. Nelle fotografie sull’Irlanda del Nord ci sono gli stessi luoghi visti da due punti di vista diversi: quello protestante e quello cattolico. L’idea è quella di provare ad usare la fotografia per vedere lo stesso elemento da entrambi i lati e provare a raccontare l’idea di divisione, attraverso i muri, le sbarre, ma anche gli sguardi. 

Nel caso di Hebron non servono spiegazioni.
LG Hebron è una città divisa in due, dove oltre 700 coloni protetti da 4mila soldati hanno occupato fisicamente lo spazio, sottraendo ai palestinesi case, strade, negozi e destinandoli ai soli cittadini israeliani. 

Tra le storie raccontate attraverso le sue immagini c’è anche quella di Hashem. Chi è?
LG Hashem era un medico palestinese, che abitava nella zona occupata di Hebron e che aveva iniziato a fare da guida agli internazionali in visita, raccontando che cosa vuol dire vivere da occupato in casa propria. Nel 2015, durante la cosiddetta Intifada dei coltelli, ha avuto un attacco di cuore, arrivato al checkpoint i militari non lo hanno fatto uscire e non hanno fatto entrare l’ambulanza, così è morto, lasciando la moglie e otto figli. L’ultima immagine che ho di lui, è con la sua telecamera accesa, per filmare le angherie quotidiane che subiscono i palestinesi a Hebron, che ci saluta dicendo “never give up the fight”.

La vicenda palestinese, seppur sempre più marginalizzata da politica e opinione pubblica, è qualcosa di ben presente; quella dei saharawi è tornata di recente sulle cronache con lo scoppio delle tensioni sul fronte Polisario. La questione irlandese sembra invece superata, qualcosa da leggere nei libri storia. È così?
LG 
Belfast è una città che ancora oggi è divisa, è un enorme braciere che non si è mai spento, nel quale la protesta e gli scontri sono pronti a scoppiare in ogni momento. Tutti gli anni, a luglio, viene organizzata la parata orangista per ricordare l’arrivo di Guglielmo d’Orange in Irlanda. Per rievocare le fiaccole di allora, i protestanti preparano enormi ammassi di legna, gomme, ferro, alti anche tre o quattro metri in cima ai quali viene esposto un simbolo irlandese, per poi dare loro fuoco. Questo avviene nella democratica e civile Europa. 

Crocevia di memoria. Derry. Irlanda del Nord © Luca Greco

Dalle foto, dalle citazioni e dalle note che accompagnano il libro emerge con forza un’idea: quella di tre popoli privati della loro libertà e schiacciati da un altro popolo. È questo l’apartheid?
LG È anche questo. È l’impossibilità di vivere una vita libera nelle proprie terre e nella propria casa. Ma il concetto di apartheid assume qui un significato universale, legato al tema della libertà. Che cosa vuol dire essere veramente liberi? Per me non è fare ciò che si vuole, oppure rivendicare un diritto individuale. Una persona deve essere libera di sviluppare la propria libertà individuale indipendentemente da condizioni etniche, religiose, di genere e non a scapito di altri, ma assieme agli altri. Per me la libertà è un concetto collettivo e, come diceva Sandro Pertini, la libertà senza giustizia sociale è vuota. Pensiamo alla questione di genere in rapporto al lavoro: il peso più importante della pandemia lo stanno pagando le donne. La libertà non dipende solo del tipo di regime in cui si vive, ma è una questione culturale e politica. 

Questo libro nasce da una mostra ma è diventato anche uno spettacolo teatrale.
LG
 Due drammaturghi milanesi, Chiara Tarabotti e Davide Sormani, hanno avuto l’idea di accompagnare alle foto dei monologhi che raccontano storie iconiche per ogni popolo. Quella di Bobby Sands, attivista nordirlandese, militante dell’IRA ed eletto membro del Parlamento britannico da detenuto, muore nel 1981 in seguito a uno sciopero della fame per protestare contro il regime carcerario a cui erano sottoposti i detenuti repubblicani nelle carceri inglesi. Mariem Hassan, la più importante cantante saharawi, costretta a subire l’esilio nei campi profughi in Algeria negli anni Settanta a seguito dell’invasione del Sahara occidentale da parte di Marocco e Mauritania, si fa voce e canto di un popolo che non perde la speranza di poter tornare a vivere nelle proprie terre. Muore nel 2015 in seguito a una malattia. Infine Juliano Mer Khamis, attore, regista, intellettuale e attivista israelo-palestinese, che proseguendo il lavoro della madre, Arna Mer, fonda il Freedom Theatre nel campo per rifugiati di Jenin, uno dei pilastri della resistenza culturale palestinese. Viene ucciso nel 2011 e il suo assassino è ancora ignoto. 

Fonte: altreconomia.it, articolo e intervista di Manuela Valsecchi (3 aprile 2021)

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