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Recensione – La Mia MelaMarcia

Recensione – La Mia MelaMarcia

In fondo, potrebbe essere tutta una nostra invenzione. La realtà potrebbe essere quella descritta nei libri. Quella che teoricamente, un essere potrebbe leggere dall’alba dei tempi fino alla morte dell’universo.

Per tutto questo tempo esiste una musica di sottofondo e, se stiamo attenti, potremo afferrare al volo una pagina sporca e leggere, scritta sopra di essa, un racconto.

Sporco, di dubbia bellezza, di discutibile utilità. Ma è qualcosa che esiste, e nessuno l’ha mai messo in dubbio. Nessuno mai lo farà.

L’arte è l’unica cosa che esiste.

Firmato Simone Di Plinio, pescarese, trentenne, scrittore, musicista, ricercatore nel campo delle neuroscienze come si legge nel risvolto di copertina de “La mia mela marcia”, lavoro che inaugura la collana Babele diretta da Massimo Pamio della nuova editrice di Pescara Mondo Nuovo.

Una raccolta di racconti – o meglio un’unica storia con più diramazioni e varianti – in cui l’autore affronta il tema del reale, della consistenza del mondo e dell’esistenza. Tema non nuovo, certo, ma rivisitato alla luce delle tante informazioni che arrivano anche dagli ambiti delle scienze. Il che produce uno slittamento dal piano filosofico esistenziale al piano scientifico (e ritorno). Ironia, finta leggerezza, ricorso allo stratagemma della narrazione in prima persona alternata alla terza, sono alcuni degli strumenti di cui Di Plinio si è servito per trattare una simile materia e risolverla sul piano formale.

La storia:

Apocalisse in cielo e in terra. Crono si riprende il potere e decide che gli uomini vanno sterminati. Tutto ricomincerà, ma non daccapo. Niente arte, niente sogni, niente amore. Meglio la “suprema onestà” e la “pace perpetua”, vincolando il nuovo genere umano che ripopolerà la terra soltanto a ciò che esiste. Via Cerere, la dea della sovrabbondanza, “della ridondanza e dell’inutilità”. Via Apollo, la cui disciplina “ha corrotto inutilmente l’animo degli uomini”. E via la Luna con tutte le sue suggestioni. E’ ciò che accadrà o che è già accaduto dal momento che lassù, più o meno alle latitudini del big bang, il tempo scorre in maniera diversa.

Nel frattempo, quaggiù, gli uomini continuano la loro vita irrisoria per la cui descrizione servono parecchi epiteti, parecchi bicchieri, parecchi corpi alla ricerca di altri corpi, parecchio Bukowski. Irrisoria e folle, la vita umana, con i suoi copioni, le sue credenze, le sue stereotipie e ritualità.  In breve, più o meno con tutto ciò che in genere viene definito realtà.

Ma Phil (il personaggio più ricorrente) è fra quelli che sanno. Lui è consapevole del fatto che la vita è un flusso continuo di proiezioni e introiezioni attraverso cui costruiamo storie e che, una volta smontate narrazione lineare e ripetizione, si va a scoprire più o meno il nulla, l’illusorietà dell’Io. E’ quanto è accaduto a lui, esploso in frammenti proiettati in altrettanti specchi: porzioni, attimi di vita, “particelle di tempo” in cerca di un autore che dia loro senso.

Lui sa, dunque, e vive il privilegio di precipitare in quelle fessure dell’esistenza in cui è impossibile separare il sogno dalla realtà, in cui la differenza non ha senso.

Quelle fessure sono i luoghi del quotidiano trasformati in spazi onirici e surreali, soglie fra mondi in cui hai magari la ventura d’incontrare Cajkovskij e Dalì.

E in quelle fessure Phil, con il suo tablet, costruisce storie e incrocia la sua esistenza  con quella di altri personaggi in una serie di dieci racconti di cui ciascuno potrebbe essere considerato la variante dell’altro, in cui i protagonisti talvolta proseguono o reinventano le esperienze altrui, in cui le esistenze s’intersecano in un gioco combinatorio ed effimero:  “La realtà è fatta per sfaldarsi. Non si tempra all’ombra delle nostre esperienze, ma si decompone e si ricrea nuovamente, a volte leggermente diversa, a volte totalmente indistinguibile”.

Il lettore, però, non si aspetti alcuna costruzione complessiva che metta in relazione le storie. I personaggi (“ma sarebbe meglio utilizzare il termine personalità, o entità, visto che in effetti due esistenze distinte, due esperienze distinte, possono esibire essenzialmente le stesse caratteristiche psicologiche”, scrive l’autore nella prefazione), sono come coriandoli lanciati nello spazio e nel tempo.  Tutt’al più “condividono certi eventi vissuti, o il nome”, si legge ancora nella prefazione.  

Ma “La mia mela marcia” è anche la storia di un amore e di una morte, come l’ultima parte del libro mostrerà. E’ la storia di uno svelamento, di che cosa può accadere quando viene tagliato il filo che tiene unito tutto, che rende più o meno coerente  la trama della vita e l’architettura dell’Io. E’ il filo della continuità, “il presupposto per farci agire nello stesso piano spaziotemporale”, scrive nelle ultime pagine l’autore. Perso questo continuum, ci si può però aprire ad un orizzonte più vasto, alla molteplicità delle altrui e proprie esistenze. Il prezzo da pagare lo sbriciolamento fino alla percezione estrema del vuoto, alla percezione di se stessi come entità privi di sostanza, di statuto ontologico. Medium, piuttosto, che macinano storie e sogni; veicoli d’informazioni che vagano da una esistenza all’altra, da un’epoca all’altra. Recettori, trasmittenti, onde sonore, rappresentazioni mentali.

Non è poco, è perfino troppo per l’imperfetto genere umano. E’ troppo da sapere; è troppo da gestire e regolamentare.  C’è da sprofondare nel caos. E’ quanto sembra pensare Crono, il tempo divoratore del tempo al suo atto finale. Ingoierà tutto, i millenni di storia, le memorie vaganti sulla terra, tutta l’arte, tutta la poesia. Qualcuno si dispiace, qualcuno che il genere umano l’ha invece amato. Artemide, per esempio, la dea che prima dello sterminio chiede il permesso a Zeus “di scendere un’ultima volta tra gli abissi mortali e di vagare un’ultima volta tra le strade senza fine che gli uomini hanno costruito”. Strade, evidentemente, non solo fisiche.

di Rita Gambescia

 

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