La bellezza è la risposta

La bellezza è la risposta allo sgomento di ex-sistere. E più è profondo lo sgomento, più è ab-soluta l’esperienza della bellezza.

E’ da questo sgomento che è necessario essere “salvati”, quando si parla della bellezza-che-salva; perché l’uomo colpito da questo terrore, è l’uomo che si sta scoprendo identico al nulla, alla morte.

Noi tendiamo a  “diventare la cosa che guardiamo” (Keiji Nishitani ); per questo   “una sola ti sembri l’essenza di chi guarda e di chi è riguardato” ( Rumi). E quando “guardiamo” il tempo, quando ne diventiamo consapevoli, diventiamo tempo, diventiamo morte. Allora  è inevitabile lo sgomento e il terrore.

Ma quanto più è intensa l’esperienza del nostro essere solamente tempo, tanto più vediamo la bellezza. Perché la bellezza non si manifesta attraverso le forme che vediamo fuori di noi (quella è l’estetica); la vera bellezza è generata dentro noi, ed è proiettata da noi sulla “realtà”.

Siamo noi i creatori della bellezza, e la generiamo non per motivi “artistici” o estetici, ma perché ne abbiamo bisogno “fisicamente”; per non morire, per schermare la tragedia del nostro essere al mondo; per salvarci dal naufragio.

Questa è la “bellezza che salva”, perché solo questa esperienza “tragica” ha bisogno di essere salvata.

Le altre vite da cosa debbono essere salvate?

Non corre alcun pericolo chi non vede, chi non soffre, il pericolo.

Questo sapeva Holderlin quando scriveva : “dove è il pericolo / cresce

anche ciò che salva” (Patmos ).

Il “pericolo” e “ciò che salva” stanno assieme. E se il pericolo è generato dalla consapevolezza dell’essere mortali, la “salvezza” non può essere generata dalle illusioni di ordine “sociale”: quelle che si accontentano di “valori”, di morale, di teologia, di filosofia o di estetica.

Quando sei tu a scoprire che la mortalità se proprio tu, puoi salvarti solo creando bellezza. E’ l’estremo tentativo della vita di salvarsi. Per non naufragare nella “cosa che guardiamo”.

In certi momenti della vita, se non fosse per la bellezza, molti preferirebbero la morte. Perché è impossibile vivere sapendo che siamo un parto del nulla, e nel nulla presto rientreremo.

Nessuno potrebbe essere indifferente alla tragedia del tempo: tranne i santi e gli animali.

Per tutti quelli che sono in mezzo, l’unica, vera, sofferenza dovrebbe nascere dalla consapevolezza della nostra mortalità. E a questa consapevolezza non sappiamo come rispondere se non con la bellezza. Per questo “vi è un’amarezza inseparabile dal bello sotto tutte le sue forme” (S.Weil), perché la bellezza è unita sempre in modo indissolubile alla consapevolezza del “tragico”.

Molti pensano che la bellezza sia qualcosa che vediamo con gli occhi, che è misurabile con le nostre misure, che coincide con la nostra estetica; non sanno che è solo un modo di intuire il mondo.

Bisogna stare fuori dal mondo per vivere la bellezza. E per poter stare “fuori del mondo”, è necessario aver sperimentato che tutto quello che viene fabbricato dagli uomini per diventare mondo, non è né il bene, né il bello. Può essere utile, ma la bellezza non è fabbricabile dall’uomo; è l’uomo, invece, che può essere generato nella bellezza.

La relazione tra l’uomo e la bellezza esige soprattutto onestà: non quella di non barare con gli altri, ma quella di non mentire a se stessi. Quella che non ti stacca il cuore dal “tragico”, perché “il mondo è bello – solo –  per chi prova l’amor fati” (S. Weil).

L’Occidente ha però avuto paura di sapersi simile al nulla, allo zero, al vuoto; ha avuto paura del “tragico”. Si è pensato pieno, Onnipotente, infinito.

Il nulla, il vuoto, lo zero, sono “passaggi” dall’essere al non essere, dalla vita alla morte, e l’Occidente si è impegnato in tutti i modi a chiuderli. Troppo pericolosi. Meglio, molto meglio, utilizzare un qualunque Dio per tappare questi “passaggi”.

Siamo riusciti così a nascondere “il pericolo”, ma non viviamo neanche più la bellezza che salva.

Tino Di Cicco

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